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A 30 SECONDI DALLA FINE
(RUNAWAY TRAIN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 giugno 1987
 
di Andrej Konchalovski, con John Voight, Eric Roberts, Rebecca DeMornay (Stati Uniti, 1986)
 
Penultimo Konchalovski, del quale ogni volta si è tentati di ripetere che in Russia si chiamava Michalkov, che è il fratello dell'altro Michalkov, Nikita (autore del recente e bellissimo Occhi neri presentato a Cannes): e che abita ora negli USA dove ha firmato quel Maria's Lovers che molti hanno visto non fosse che per i begli occhi di Nastassia. E, dopo questo Runaway TRAIN, il controverso Shy People visto anch'esso a Cannes qualche settimana fa. Ho un debole per questo treno impazzito (il macchinista è morto, e gli avanzi di galera - così si chiamano - che l'occupano in seguito all'evasione, tentano disperatamente di arrestarlo): perché è mezzo russo e mezzo americano. Come il suo autore, e come tutti i grandi europei partiti ad Hollywood, da Lubitsch a Lang, da Wilder e Preminger che hanno conservato il sapore della cultura natia. Ma che sono diventati più americani degli americani.

Anche se è vero (come dicono coloro che non amano il film) che si tratta di un cinema giocato sopra le righe, zeppo di esagerazioni, inverosimiglianze ed effetti spettacolari, a me pare che l'effetto della mistura sia più che corroborante. C'è l'Alaska, tanto per cominciare, che è proprio il pezzo d'America che più assomiglia alla patria di Konchalovski: uno spazio infinito freddo e incolore, nel quale far correre la linea di questo treno senza freni. Un viaggio che finisce così per perdere la propria tremenda materialità; per trasformarsi in una fuga metafisica dalla prigione quotidiana, in una meditazione dostojevskiana sulla nozione del sacrificio, sulla ricerca dell'assoluto. E c'è, accanto all'umanesimo russo, la dinamica tradizionale del cinema americano: violenta, quasi insostenibile (ma mai fine a sé stessa), vicina a quella di Aldrich. Al quale si pensa anche perché John Voight si è composto un personaggio che ricorda quelli di Jack Palance.

È un film che Kurosawa (su una vecchia sceneggiatura del quale è basato Runaway) avrebbe girato in modo diverso: ma che ha conservato, accanto ad un'efficacia spettacolare difficilmente eguagliabile, quei toni shakespeariani cari al maestro giapponese. Non a caso, è proprio una frase straordinaria di Riccardo III la chiave di lettura di un film che sarebbe sciocco ritenere solo d'azione: "Non esiste bestia così feroce da non conoscere la pietà. Io non la conosco: quindi, non sono una bestia".


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