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LA DONNA DI SABBIA
(SUNA NO ONNA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 febbraio 1971
 
di Hiroshi Teshigahara, con Eiji Okada, Kyoko Kishida, Koji Mitsu, Icoko Ito (Giappone, 1964)
 
La locandina del film
Fra le riflessioni sulla condizione umana delle più profonde, ed allo stesso tempo spettacolari che il cinema giapponese abbia offerto. Un cittadino è costretto a vivere in una voragine di sabbia con una donna. I contadini dei dintorni li nutrono e dissentano solo a condizione che essi scavino la sabbia incessantemente. Dapprima rivolto, poi sottomesso, infine ormai partecipe ad un ciclo di vita implacabile l'uomo non abbandonerà più la sua prigione.

Il pericolo in un film come questo è che il simbolismo uccida il tutto. Perché è chiaro che di simbolismo, feroce, violento si tratta. L'uomo è vittima della società che lo sfrutta; ma dopo uno sterile tentativo di rivolta contro di essa, egli diventa complice della stessa, entra nell'ingranaggio del processo; e già si presagisce che un altro diventerà vittima al suo posto. La società, il consumo hanno ucciso la sua coscienza, il suo desiderio di libertà. Come la sua compagna che non desidera ormai più che un umile "transistor", anch'egli ha scoperto la via che conduce ad una effimera felicità.

Nel film questo simbolismo non è però mai macchinoso. Ci sono alcuni istanti di squilibrio nell'atmosfera: penso alle scene di violenza espressionistica con le maschere degli aguzzini (e la musica ritmata, ossessionante); e a quelle girate all'aperto, che sono di una "grana" completamente estranea al tutto. Al contrario, quasi tutto il film e dominato da una visione registica di grande respiro, da un rigore formale di straordinaria potenza. La presenza materiale della sabbia, simbolo della caducità umana, ma incredibilmente viva, ingigantita dalle scene erotiche riprese con lenti d'ingrandimento che vanno oltre il primissimo piano, incollata col sudore alle epidermidi che hanno assunto un aspetto fantastico, morboso ma non certamente indecente. Questa visione fantastica e magica al servizio di un discorso estremamente preciso e polemico, di sicuro impegno sociale e politico rappresenta uno dei tanti miracoli del film.

I fotogrammi finali concludono con rara intelligenza l'opera. Lungi dallo sfociare nella classica inquadratura del mare aperto, liberatore, la breve fuga del protagonista è inquadrata "contro" il mare: che appare, confuso e sfuocato, dietro al viso in primo piano dell'uomo che volta le spalle alla distesa marina. Vi è in questa idea tutta la sottomissione ad un nuovo ordine, tutta l'abdicazione a quelle che erano le convinzioni iniziali del protagonista. Al quale non rimane che ritornare nel proprio buco.


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