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ALL'OMBRA DEL DELITTO
(LA RUPTURE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 maggio 1972
 
di Claude Chabrol, con Stéphane Audran, Jean-Pierre Cassel, Michel Bouquet, Angelo Infanti (Francia, 1970)
 
La locandina del film
Uno dei migliori film di Chabrol, un esempio perfetto del suo modo di concepire il cinema. Malgrado un'impostazione melodrammatica dei personaggi, malgrado una schematizzazione elementare dei ruoli ed una irrazionalità della sceneggiatura (che avrà disturbato non pochi, spettatori e critici), ma proprio su questi fattori negativi Chabrol intreccia un discorso registico a tratti affascinante. E non penso, sia ben chiaro, a certe divagazioni della macchina da presa, a certi sfumati al teleobiettivo; questo, come quanto precede, appartiene al patrimonio che il regista (ma a chi non succede?) si trascina.

Intendo piuttosto la sovrastruttura morale: che, grazie al linguaggio del cineasta, viene a crearsi al disopra della storia. Al significato secondo, e ben più importante di quello del semplice intrigo poliziesco, che viene a sostituirsi ai personaggi ed agli avvenimenti. Arricchendo così il film di un valore, di una densità di risvolti psicologici assai più vasta. In questo senso, con LA RUPTURE, questo tradizionale ammiratore di Hitchock sembra avere appreso ammirevolmente la lezione de grande regista americano.

Lavorando esclusivamente con degli attributi registici (si pensi alla scena, sapientemente dilatata, del colloquio nel tram, al ruolo conferito alle tre vecchie o all'attore di teatro, alla direzione degli attori così sospinta, specie quella della Audran, a tutta l'arte dell'ambientazione, quella della pensione, della città stessa) Chabrol riesce a riassumere tutta la vicenda in un sottile gioco fra il Bene ed i Male. Fra delle pedine astratte (proprio per la loro inconsistenza, la loro esemplificazione, la loro eccessività secondo il metro realistico) mosse da una forza superiore, alla quale si abbandonano. Con una abilità fuori dal comune nel trattare il tempo cinematografico, alternando continuamente i tempi morti a quelli convulsi, quelli drammatici a quelli rilassati, fino alla nota umoristica, dominando il colore nei suoi significati psicologici, guidando certi elementi più facili dello spettacolo (si pensi, ancora una volta, alla macchietta dell'attore, o alle tre vecchiette) ed altri anche evidenti della denuncia sociale (la borghesia, il potere del denaro) il regista riesce a trasfiigurarli, a ricondurli su di un piano espressivamente uniforme che trascende il contesto del racconto.

Pure con i suoi limiti, questo tentativo di Chabrol di creare un linguaggio significante e autonomo che intervenga sulla realtà per proiettarla in una dimensione d'importanza eterna, è il tentativo di tutti i grandi cineasti. Riuscito più o meno perfettamente, va comunque riconosciuto e lodato come tale. Esso vale, per coloro che credono ad un'arte del cinema, mille volte di più di tante più perfette e finite illustrazioni.


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