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CHINATOWN
(CHINATOWN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 febbraio 1975
 
di Roman Polanski, con Jack Nicholson, Faye Dunaway, John Huston, Burt Young, Bruce Glover (Stati Uniti, 1974)
 

Polansky era reduce da due fiaschi finanziari, MACBETH e CHE. Con CHINATOWN ha voluto dimostrare di saper essere anche un regista di cassetta, e ci è riuscito perfettamente. Il merito maggiore del regista è di essere riuscito a fare questo film-dimostrazione (per i produttori) senza abdicare alle proprie qualità artistiche. Ne è uscito un omaggio, di splendida fattura, dedicato ad uno dei generi più gloriosi del cinema americano, il «criminal». Il film non è inferiore ai grandi esempi: IL FALCOME MALTESE di John Huston, THE BIG SLEEP di Hawks o LA DAMA DI SHANGAI di Orson Welles. Se forse non è un capolavoro, a parte le premesse dalle quali è partito, è perché ha il torto di venire «dopo» quei capolavori. Con una precisa volontà cioè, di volersi adeguare ad un modello d'epoca già esistente, E per il leggero fastidio di inserirsi in quel filone della moda «retro» che non ha risparmiato il cinema.


Se CHINATOWN non appartiene ai film più originali di Polansky (penso a REPULSION, CUL DE SAC o al BALLO DEI VAMPIRI è però uno degli esempi più alti del grande mestiere, della padronanza stilistica del suo autore. Non c'è un capello fuori posto nel film, a cominciare da quelli dei due interpreti. L'ambientazione, i costumi, ma soprattutto l'ambiguità delle atmosfere, il taglio cinematografico del racconto ripropongono esattamente i grandi modelli di un tempo. Così come l'incastro a sorpresa, il rovesciamento delle situazioni, rendono l'incanto dei toni di Raymond Chandler al quale Polanski ed il suo sceneggiatore si sono continuamente riferiti. Oggetto perfetto: con qualcosa in più. La trovata della parola «Chinatown» che Nicholson ripete in continuazione. Anonima all'inizio per lo spettatore, essa diventerà, con il trascorrere del film, sempre più chiara. Simbolo, inquietante, di corruzione, violenza, sopruso, finirà per donare alle immagini del film un carattere di denuncia che trascenderà l'aneddoto, di per sè non originalissimo. Condurrà alla sequenza finale, dove l'impotenza del protagonista nei confronti di questa «Chinatown» permette al linguaggio di Polansky di liberarsi finalmente.


Qui, forse dimenticandosi dell'oggetto fin troppo prezioso che stava costruendo, il regista trova di colpo i toni della tragedia, ed il suo film quella dimensione superiore ed autonoma che gli mancava.


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