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BARRY LYNDON
(BARRY LYNDON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 luglio 1985
 
di Stanley Kubrick, con Ryan O'Neal, Marisa Berenson, Patrick Magee, Hardy Krüger, Steven Berkoff, Gay Hamilton (Gran Bretagna, 1975)
 
Splendido e glaciale, BARRY LYNDON non è, nella sua perfezione, il film più facile di Stanley Kubrick.

È anche il più sorprendente: ma questa è una delle particolarità di un regista che mai si è ripetuto. Che di film in film ha rinnovato l'estetica, l'atmosfera e la suggestione. Pur mantenendo, ed è questo che ne ha fatto la forza, un discorso impeccabile continuo e coerente. Niente di più dissimile, apparentemente, di questa illustrazione settecentesca di un romanzo del 1844 di William Thackeray rispetto alle opere precedenti del regista. La fantascienza di ARANCIA MECCANICA e di 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO, l'analisi sociale e comportamentale di Lolita, il pastiche politico di STRANAMORE e via dicendo. Poiché, sempre a prima vista, BARRY LYNDON è un gioco di rinvii: il film di un uomo del nostro secolo che guarda ad un uomo del secolo scorso il quale, a sua volta, commentava ciò che accadeva cent'anni prima di lui... La storia di un ragazzo del popolo, un plebeo della campagna irlandese, un ingenuo, un sentimentale, un disilluso, uno sciocco, un avventuriero un libertino che tenta la scalata al mondo del denaro, dei privilegi. Il posto al sole, al quale ambisce ogni eroe kubrickiano.

Portentosa ricostruzione d'ambiente. La fotografia, ormai leggendaria, di John Alcott, la scenografia, i costumi, la scelta ma soprattutto la collocazione degli attori, il montaggio tagliato sulla musica di Bach, di Haendel, delle cantate irlandesi e delle marce militari. Una ricreazione d'epoca come raramente il cinema ci ha dato: i paesaggi di Constable, i ritratti di famiglia di Reynolds, il grottesco di Hogarth, la natura fremente di Gainsborough. E ancora l'intimismo di Chardin, la celebre luce di candela di Georges de la Tour, i colori freddi e ritagliati delle battaglie della pittura tedesca. In questi spazi ideali e carichi di rinvii classicamente ideali, Kubrick colloca i personaggi. Con una precisione millimetrica, i gesti composti esattamente, le espressioni dettate, la luce (sia essa solare o di un interno) che viene a ammorbidire tanta perfezione, a riagganciarla con la realtà: il dettaglio di una bava di brezza che increspa lo stagno, lo sguardo perduto dell'avventore di una taverna. La bellezza assoluta. Ma mai, ed ecco la chiave di lettura di BARRY LYNDON, fine a se stessa. Perché questa bellezza è l'arma per un discorso ben preciso. L'estasi contemplativa alla quale c'incita Kubrick non è altro, infatti, che l'immagine perfetta che un'epoca ha voluto darsi. Non si tratta, dapprima, che dello splendore esterno dei paesaggi. Ma in questi s'inserisce ben presto l'immobile staticità dei gesti, il conformismo dei comportamenti. Poi l'impassibilità delle espressioni dietro le maschere. Le ciprie, le parrucche, i nei ed i belletti che, progressivamente, cancellano l'uomo. E il trionfo del perbenismo e dell'ipocrisia, delle belle maniere dietro alle quali si nasconde tutta la volgarità e la corruzione dell'uomo. Contro tutto ciò va a sbattere Barry Lyndon che, più che un eroe è uno stolto. Più sale in alto, sfiorando il re ed il titolo di Lord, più s'illude di essere padrone del proprio destino, di piegare alla propria misura quei falsi valori in cui crede. Debole o vile che sia, BARRY LYNDON è, in quel mondo di manichini, uno dei pochi esseri umani in circolazione. Assieme a quei pochi che Kubrick ci mostra, la madre, i compaesani, i soldati. Uomo, Barry lo è soprattutto quando si scaraventa con ritrovato istinto contro il figliastro. E l'inizio della fine: i manichini, le gelide maschere ben educate lo rigetteranno nel più profondo di quel mondo di miseria dal quale egli tentava di evadere. Così, nel passaggio da una descrizione trionfale della natura che segna la prima parte del film alla pittura crudele e implacabile delle maschere, l'occhio della cinepresa dl Kubrick segue l'itinerario del protagonista. I giocatori d'azzardo, i nobili, gli aristocratici degenerati sono studiati in ogni loro minima relazione (la seduzione di Marisa Berendson, il precettore religioso) con un'aderenza psicologica irripetibile. Così il "bello", come sempre nell'arte, si mette al servizio di un discorso morale esterno. La distanziazione imposta da quello di Kubrick fa risaltare la meccanica di una logica sociale imperitura, di un rifiuto che ha segnato la storia, e che non ha finito di segnarla.

Per coloro che si fossero ostinati a non capire, Kubrick ha riassunto nella didascalia finale il significato non solo di BARRY LYNDON ma di tutta la sua opera: "tutti i personaggi del film, buoni e cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti eguali".


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