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DERSU UZALA, IL PICCOLO UOMO DELLE GRANDI PIANURE
(DERSU UZALA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 aprile 1977
 
di Akira Kurosawa, con Maksim Munzuk, Yuri Solomin, Svetlana Danilchenko (Giappone, 1975)
 
Raramente un'opera ha raccolto una simile messe di simpatia. E allora, gridare al capolavoro non è difficile per questo film- somma, confessione della maturità da parte di un gigante della storia del cinema. Un gigante che, in dodici anni, non aveva girato che due pellicole: BARBAROSSA (1964) e lo splendido DODE'S KADEN. In dodici anni, una crisi esistenziale, degli insuccessi commerciali, l'impossibilità di produrre quello che voleva, un tentativo di suicidio. L'autore di RASHOMON esce da tutto questo con DERSU UZALA, che i russi gli hanno proposto di girare in Siberia mettendogli a disposizione dei mezzi giganteschi, una “troupe” tecnica colossale, un periodo di più di due anni e, soprattutto, una natura sterminata e vergine, nella quale un artista ferito e vecchio può trovare la dimensione eterna nella quale inserire il proprio dramma.

Il film è il ritratto di un cacciatore mongolo solitario, che vive le stagioni vagabondando per la taiga, la landa siberiana dalle estati brevi e violente, e dai lunghi inverni desolati. E', ovviamente, l'elogio di un incontro incontaminato con la natura; Dersu parla con gli animali (“vai via, tigre, c'è un posto per tutta nella taiga, va via che i soldati ti uccideranno”), anticipa i suoni ed i segni, rappresenta l'uomo ancora ricco di percezioni fisiche, dai sensi e dalla morale non ancora offuscata dal progresso scientifico. Ma lo straordinario interprete di Kurosawa non è però, e soltanto, il buon selvaggio caro a Rousseau.

Nessuno, meglio dei giapponesi, è riuscito nel cinema a trasformare la natura in uno scenario fantastico. Il miracolo del DERSU UZALA di Kurosawa è che il quadro immenso della natura, rivista con occhi primitivi ed intatti, fa pensare al tempo stesso a Flaherty, e cioè al più grande regista che abbia saputo dimensionare l'uomo nella natura; ma anche ad un poeta magico dell'astrazione. Che in quadro altamente realistico sia riuscito a trasporre le preoccupazioni ideali e morali dell'uomo. L'arte della regia di Kurosawa unisce infatti la descrizione realistica flahertiana, restituita con impeccabile purezza formale, all'intervento registico che tende a trasformare questa descrizione in simbolo, in mito.

Tipiche, in questo senso, sono le bellissime sequenze sul lago ghiacciato. Qui Kurosawa organizza con una padronanza registica grandissima il suo discorso formale ed ideologico: l'uomo non è soltanto solo con la natura, ricondotto così al suo ruolo naturale e primitivo. Ma ogni suo gesto, inserito in una dimensione così eterna, assume un aspetto al tempo stesso semplice e profondo. E si carica di quegli accenti emblematici di verità che ogni artista, al culmine della scalata artistica, vorrebbe poter donare alle proprie creature.


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