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DIAVOLO IN CORPO Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 settembre 1986
 
di Marco Bellocchio, con Maruschka Detmers, Federico Pitzalis (Italia - Francia, 1986)
 
Il cinema non è il risultato di una precisa alchimia, per nostra fortuna. Ci sono, ad esempio, dei film imperfetti, probabilmente mancati, ai quali ci si attacca. Che rimangono nella memoria (ma anche perché nella memoria rimane il gesto cinematografico e non l'intrigo, la pallina da tennis invisibile di Blow Up e non la storia d un delitto da scoprire) meglio di altri, forse più compiuti, forse più ragionevoli, ma anonimi.Diavolo in corpo è uno di questi film. Perché Bellocchio, anche se dopo la più bella opera prima che un cineasta possa sognare (I pugni in tasca) non ha forse mai girato un film perfetto, è un uomo dl cinema vero. Uno che sa posare uno sguardo su una realtà, e che riesce a trasfigurarla, nel preciso istante in cui questa realtà filtra attraverso la lente di una cinepresa per imprimersi su una pellicola. Uno che ti filma il rosso della vestaglia di Maruschka Detmers mentre si posa sul blu della camicia jeans di Pitzalis: e isolando dal resto del contesto quei due colori contrastanti riesce a cogliere quella vibrazione, quell'entità astratta che si chiama Passione.Che Diavolo in corpo sia un film sulla passione è indubbio: quando ci si riferisce ad un classico come il romanzo di Radiguet, quando si riprende il capolavoro del 1947 di Autant-Lara, quando si ripropone una coppia leggendaria come quella composta allora da Gérard Philipe e Micheline Presle, non si agisce a caso. Anche se alla guerra si sostituisce il terrorismo, il discorso rimane sempre quello: il potere sovversivo dell'amore, I'opposizione irrazionale della passione, ai confini della follia, nei confronti del conformismo e della violenza. Sono i temi che hanno marcato l'opera di Bellocchio: e non a caso in quella parte che è comunemente indicata come la migliore del film è un atto di follia, o di disperazione, a far nascere la passione fra i due giovani protagonisti. Il «salto nel vuoto», mancato è vero, di una donna di colore che minaccia di gettarsi dal tetto che separa i due futuri amanti. Questo elogio della passione e del suo potere sovversivo, questa riflessione sui confini che separano la ragione dalla follia riescono miracolosamente a Bellocchio quando si abbandona alla propria grazia creativa: così nelle scene dei processi ai terroristi che mai finora il cinema italiano era riuscito a rendere sullo schermo. Così in quella in cui Giulia si affanna in discoteca a sposare il ritmo istintivo di una ballerina nera, in una sorta d'esigenza d'arcaica femminilità. O in quell'altro ritorno alle origini, del Mito questa volta, mentre Bellocchio riprende il primo piano della ragazza che ascolta in lacrime l'esame di Andrea, che in greco legge e commenta un passo dell'Antigone. Nata come l'eroina di Sofocle per amare piuttosto che per uccidere, la protagonista significa il film ogni qual volta la cinepresa di Bellocchio s'attarda su di lei. I risolini di Maruschka Detmers, le sue esitazioni, i salti d'umore costituiscono i momenti di grazia dell'incontro fra l'autore ed i tempi del suo film.Tutta l'ambiguità della dissertazione si esalta nella follia amorosa dell'attrice. Filmando con raro pudore, e al tempo stesso con limpido realismo l'amore fisico, Bellocchio riesce a far sua la rivolta nei confronti del conformismo: al terrorismo politico si sostituisce quello passionale della ragazza. Alla figura del pentito che dichiara di voler vivere una vita da mediocre, oppone il positivismo del protagonista, lucido motore di una storia di passione e di follia, ma anche (sorprendentemente in quella confusione generale...) promosso agli esami di maturità.

Quando suggerisce, grazie all'intuizione registica di uno sguardo sempre sovrano, il film sale così di tono. Quando invece dimostra, cerca di spiegare (in particolare i rapporti fra passione e follia, la figura assurda del padre psichiatra), abbandona lo stato di grazia con il quale segue le figure dei due giovani protagonisti, scivola verso l'enunciazione velleitaria. Una sorta di allegra dissertazione edipica, già tutta contenuta nelle premesse della sceneggiatura: figlia di un padre vittima di terroristi, Giulia è fidanzata a sua volta con un pentito ed è sorvegliata con fiero cipiglio dalla madre di questi. In quanto ad Andrea, egli è figlio di uno psicanalista che ha avuto in cura Giulia, e che forse (è una delle non poche cose di Diavolo in corpo che lo spettatore non riuscirà mai a delucidare) ne è stato l'amante.


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