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Ispirato alla vita e all'autobiografia di Chris Kyle, sottufficiale dei Navy Seal e cecchino leggendario che protesse in Irak l'avanzata dei marines uccidendo più di 200 persone (un record nella storia militare USA), l'ultimo film dell'ottantaquattrenne maestro di tante battaglie non è una riflessione sulla guerra. Ma un ritratto di sé stesso, della propria filosofia, del suo modo di porsi nei confronti della Patria. Non si tratta allora di mettere in discussione la perizia di un cineasta che non solo rappresenta l'ultimo erede del grande classicismo hollywoodiano, ma che sull'uso della violenza ha costruito molta parte della sua gloriosa filmografia. Secche, implacabili, spesso vissute attraverso la visione distaccata, chirurgicamente analitica, di un visore posto sopra un'arma usata con micidiale destrezza, sull'esitazione dell'indice appoggiato al grilletto, le scene di guerra di AMERICAN SNIPER non sono solo difficilmente eguagliabili in termini di straordinario realismo (come già erano state, nel 2006, quelle di FLAGS OF OUR FATHERS sul terribile sbarco dei marines sulla spiaggia di Iwo Jima e, soprattutto, il susseguente gemello, e sublime, LETTERE DA JIWO JIMA). Nella loro efficacia, nella semplicità e precisione con la quale traducono lo sguardo del cineasta esse si caricano quasi inconsciamente di un peso morale che, impresso su uno schermo, sedimenta nella memoria ben oltre tanti discorsi. Rimane il fatto che il film è tutto costruito in una serie di andirivieni fra l'orrore della battaglia e l'aspirazione alla serenità familiare, costituita dalle pause fra una missione e l'altra del protagonista. Meglio dimenticare allora l'incontenibile emozione suscitata da quel genere di contrapposizione in IL CACCIATORE di Michael Cimino per rendersi conto della convenzionalità delle rimpatriate di AMERICAN SNIPER. Dovuta allo schematismo della sua costruzione drammatica (alleata allo scarso carisma del protagonista-produttore Bradley Cooper e consorte Sienna Miller, che non contribuiscono di certo all'identificazione da parte dello spettatore) l'impressione di uno scarso approfondimento ideologico di una pellicola nella quale non si dice mai l'essenziale? E cioè di quanto in ognuna delle due parti ci siano i buoni e i cattivi, di quanto questa distinzione venga progressivamente obnubilata nell'infamia di ogni guerra. Forse, AMERICAN SNIPER è soprattutto il film di un grande vecchio che volge uno sguardo a ritroso sul proprio (più che esauriente) cammino; riaffermare i propri atti di fede gli appare questo punto ormai sufficiente?

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Inspired by the life and autobiography of Chris Kyle, the Navy Seal NCO and legendary sniper who protected the marines' advance in Iraq by killing more than 200 people (a record in US military history), the latest film by the eighty-four year old master of many battles is not a reflection on war. But a portrait of himself, of his own philosophy, of his attitude towards the Fatherland. It is not, then, a question of questioning the expertise of a filmmaker who not only represents the last heir to the great Hollywood classicism, but who built much of his glorious filmography on the use of violence. Dry, implacable, often experienced through the detached, surgically analytical vision of a visor placed over a weapon used with deadly dexterity, on the hesitation of the index finger resting on the trigger, the war scenes of AMERICAN SNIPER are not only difficult to equal in terms of extraordinary realism (as were, in 2006, those of FLAGS OF OUR FATHERS on the terrible landing of marines on the beach of Iwo Jima and, above all, the subsequent twin, and sublime, LETTERS FROM JIWO JIMA). In their effectiveness, in the simplicity and precision with which they translate the filmmaker's gaze, they almost unconsciously load themselves with a moral weight that, imprinted on a screen, settles in the memory far beyond many speeches. The fact remains that the film is all constructed in a series of comings and goings between the horror of battle and the aspiration for family serenity, constituted by the pauses between the protagonist's missions. Better then to forget the irrepressible emotion aroused by that kind of juxtaposition in Michael Cimino's THE HUNTER in order to realise the conventionality of AMERICAN SNIPER's reunion. Is it due to the schematism of its dramatic construction (allied to the lack of charisma of the protagonist-producer Bradley Cooper and his wife Sienna Miller, who certainly do not contribute to the viewer's identification) that the impression of a lack of ideological depth in a film in which the essential is never said? That is, how in each side there are good guys and bad guys, how this distinction is progressively obfuscated in the infamy of each war. Perhaps, AMERICAN SNIPER is above all the film of a grand old man looking back on his own (more than exhaustive) journey; does reaffirming his acts of faith seem to him at this point sufficient?