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TAXI TEHERAN Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 ottobre 2015
 
di Jafar Panahi, con Jafar Panahi (Iran, 2014)
 

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Autore di alcuni grandi momenti del cinema iraniano a partire da LO SPECCHIO, Pardo d'Oro a Locarno nel 1997, Jafar Panahi è stato condannato nel 2010 a sei anni di prigione, al divieto non solo di partecipare ai festival internazionali che lo avevano visto grande protagonista, ma di girare dei film, o di esprimere pubblicamente le proprie opinioni. Quindi, dopo avere vissuto l'esperienza del carcere, di lasciare il proprio domicilio. Malgrado l'ondata internazionale di solidarietà che lo ha accompagnato in tutti i maggiori festival mondiali al regista non è rimasta altra scelta che quella di piegarsi a tutte le ingiunzioni. Una esclusa: quella di rinunciare a filmare. Eccolo allora creare, senza oltrepassare la soglia del suo appartamento, due lungometraggi: QUESTO NON E' UN FILM e CLOSED CURTAINS, nei quali fonda miracolosamente l'invenzione al documento, il gioco alla testimonianza della propria condizione. Eccolo recidivare, con questo TAXI TEHERAN (Orso d'Oro in febbraio al Festival di Berlino): ma questa volta uscendo all'aperto. Una trasgressione che si svolge di giorno, per le strade centrali di Teheran; seppure, per l'intera durata della pellicola, all'interno della propria vettura. Panahi si finge autista di taxi, accoglie i passanti che gli chiedono un passaggio, intavola con una serie di inimitabili passeggeri un discorso minimalista e quotidiano, ma straordinario. Paradossale, addirittura comico, al tempo stesso drammaticamente rivelatore dell'universo che sappiamo incombergli attorno. Reale o inventato, improvvisato o dettato ai suoi attori presi dalla strada? Probabilmente le due cose; in una incertezza che serve alla destabilizzazione poetica della situazione. Il film, da quasi spensierato che era, si fa allora sempre più rivelatore, drammatico, clamorosamente esplicito. Piccolo e immenso film, TAXI TEHERAN è così affresco sociologico, tranello psicologico, denuncia militante, riflessione morale. Ma, soprattutto, straordinario gesto di libertà, prova lucida e commovente del potere insopprimibile dell'invenzione artistica.

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The author of some great moments in Iranian cinema, starting with THE MIRROR, Golden Leopard at Locarno in 1997, Jafar Panahi was sentenced in 2010 to six years in prison, banned not only from participating in the international festivals that had seen him as a major player, but also from making films, or publicly expressing his opinions. So, after experiencing prison, to leave his home. Despite the international wave of solidarity that accompanied him to all the major world festivals, the director was left with no choice but to bow to all injunctions. One excluded: that of giving up filming. So here he is, without crossing the threshold of his flat, creating two feature-length films: THIS IS NOT A FILM and CLOSED CURTAINS, in which he miraculously merges invention with the document, play with the testimony of his condition. Here he is again, with this TAXI TEHERAN (Golden Bear in February at the Berlin Film Festival): but this time going out in the open. A transgression that takes place during the day, on the central streets of Tehran; albeit, for the entire duration of the film, inside his own car. Panahi pretends to be a taxi driver, greets passers-by who ask him for a lift, and with a series of inimitable passengers he engages in a minimalist, everyday yet extraordinary conversation. Paradoxical, even comical, at the same time dramatically revealing of the universe we know looms around him. Real or invented, improvised or dictated to his actors taken from the street? Probably both; in an uncertainty that serves the poetic destabilisation of the situation. The film, from almost light-hearted that it was, then becomes increasingly revealing, dramatic, resoundingly explicit. A small and immense film, TAXI TEHERAN is thus a sociological fresco, a psychological trap, a militant denunciation, a moral reflection. But, above all, an extraordinary gesture of freedom, lucid and moving proof of the irrepressible power of artistic invention.

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