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HAPPY TOGETHER
(HAPPY TOGETHER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 6 novembre 1997
 
di Wong Kar-Wai, con Tony Leung, Leslie Cheung (Hong-Kong, 1997)
 

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Rivisto a qualche mese dall’offerta tutti-frutti di Cannes (Gran Premio della Regia) il film di colui che è forse il più estroso fra i cineasti di Hong-Kong è andato a girare agli antipodi (a Buenos Aires) ha molto da guadagnare, e poco da perdere.

Isolarsi nel tempo e nello spazio, distinguersi in un’offerta dominata dal conformismo mortificante e soprattutto espressivo, significa infatti far risaltare la propria coraggiosa originalità, la propria insolita sensibilità fremente. E relativizzare quelli che sono i rischi di un cinema dall'esposta spregiudicatezza formale. Dal manierismo, la disinvoltura nei confronti di una storia da raccontare, di una progressione drammatica che avevano caratterizzato le sue opere precedenti.

Coraggioso, Happy Together non lo è di certo per il fatto di raccontare la passione amorosa, febbrile quanto incostante, fra due giovani omosessuali (anche se il film si apre - quasi per sgomberare il campo da ogni equivoco in proposito - con una delle sequenze più giustamente esplicite che mai siano state girate in merito). Poiché quegli alti e bassi amorali esasperanti, quei lancinanti ripensamenti fra tenerezza e violenza, dedizione ed insofferenza, allegria e melanconia avrebbero potuto essere indifferentemente - come ha ripetuto a lungo Wong Kar-Wai - di qualsiasi frammistione di coppia.

Coraggioso, spregiudicato, a tratti esaltante il film non è lo è, insomma, per cosa racconta: ma per “come” la racconta. Per come trasferisce dalla Cina al quartiere portuale della Boca argentina i suoi due balordi che vivacchiano nella deriva umida degli ambienti precari cari all’autore, sognando di partire per le cascate di Iguassù. Prima di finire, con la mente prima che di fatto (anche perché, racconta Kar-Wai, giunti ad Ushuaia si accorsero di aver terminato la scorta di pellicola...) in quel lembo di Patagonia  considerato l’estremo limite, perlomeno di un certo modo di considerare il mondo.

Per come lo fa. Con una attualità, un’aderenza ai suoi ambienti urbani claustrofobici, agli spazi aperti ai quali sembra ricorrere in un ansimo disperato quando proprio non ne può più, con una visione incredibilmente libera ma mai disgiunta dalla realtà. Con la sua tipica immediatezza fisica, a fior di pelle: ma ottenuta, gioco miracoloso del paradosso artistico, grazie ad un lirismo esaltato. I rossi sgargianti, il verde putrescente che sbava da un bianco e nero saturo, granuloso; i controluce che sparano improvvisi assieme agli echi del tango di Astor Piazzola, le accelerazioni, le immagini che si fissano: tutta una disperata, esaltante musicalità, che la visione di uno dei più stupefacenti direttori della fotografia contemporanei ( Christopher Doyle) traduce in affascinante delirio coreografico.

Tutta la solitudine (straordinaria presenza dell’acqua, come in quella sequenza semplice, con il protagonista che si lascia scorrere sul liquido plumbeo del porto, gravato di tutto il peso di un mondo vissuto letteralmente agli antipodi), di alcuni insetti chiamati umani: che osserviamo dibattersi - all’inizio, quando l’indispensabile processo d’identificazione dello spettatore fatica a penetrare nello specchio stravolto di Kar-Wai - con una certa qual indifferenza. Ma che, progressivamente, finisce per debordare in quell’universo di straordinaria libertà espressiva. Con melanconia, ma pure con tenerezza e disinvolto umorismo: come quando all’interrogazione di uno dei protagonisti sui propri destini di espatriato, il regista non esita a mostrarci come dev’essere Hong-Kong in quel preciso istante: a gambe all’aria, con i grattacieli che pendono verso il basso, disperatamente aggrappati ai medesimi selciati madidi. Come dirci che tutto il mondo è paese: paese stravolto, ma che lo sguardo ncoscientemente generoso di Wong Kar-Wai rende comunque degno di essere vissuto.  

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Reviewed a few months after the all-fruitful Cannes offering (Grand Prix for Directing), the film by perhaps the most imaginative of Hong Kong filmmakers who went to shoot at the antipodes (in Buenos Aires) has much to gain, and little to lose.

Isolating oneself in time and space, standing out in an offer dominated by mortifying and above all expressive conformism, means in fact bringing out one's own courageous originality, one's own unusual quivering sensitivity. And to relativize the risks of a cinema of exposed formal unscrupulousness. From the mannerism, the nonchalance towards a story to be told, towards a dramatic progression that had characterised his previous works.

Happy Together is certainly not courageous because it tells the story of the feverish and inconstant love affair between two young homosexuals (although the film opens - as if to clear up any misunderstanding - with one of the most rightly explicit sequences ever filmed on the subject). Because those exasperating amoral ups and downs, those excruciating afterthoughts between tenderness and violence, dedication and intolerance, joy and melancholy could have been indifferently - as Wong Kar-Wai has repeated at length - of any couple's mixture.

Courageous, unconventional, and at times exhilarating, the film is not, in short, for what it tells, but for "how" it tells it. For the way in which it transfers from China to the port district of the Argentinean Boca, its two fools living in the damp drift of the precarious environments dear to the author, dreaming of leaving for the Iguassu Falls. Before ending up, in mind before actually ending up (also because, as Kar-Wai tells us, on reaching Ushuaia they realised they had run out of film...) in that strip of Patagonia considered the extreme limit, at least of a certain way of considering the world.

The way it does. With an actuality, an adherence to its claustrophobic urban environments, to the open spaces to which it seems to resort in a desperate panting when it just can't take it anymore, with an incredibly free vision but never detached from reality. With his typical physical immediacy, at the skin's edge: but obtained, a miraculous game of artistic paradox, thanks to an exalted lyricism. The garish reds, the putrescent green drooling from a saturated, grainy black and white; the backlighting that suddenly shoots out together with the echoes of Astor Piazzola's tango, the accelerations, the images that become fixed: all a desperate, exalting musicality that the vision of one of the most amazing contemporary directors of photography (Christopher Doyle) translates into a fascinating choreographic delirium.

All the loneliness (extraordinary presence of water, as in that simple sequence, with the protagonist who lets himself slide on the leaden liquid of the port, burdened with all the weight of a world lived literally at the antipodes), of some insects called humans: that we observe struggling - at the beginning, when the indispensable process of identification of the spectator struggles to penetrate Kar-Wai's distorted mirror - with a certain indifference. But which gradually ends up overflowing into that universe of extraordinary expressive freedom. With melancholy, but also with tenderness and nonchalant humour: as when, when one of the protagonists questions his own destiny as an expatriate, the director does not hesitate to show us what Hong Kong must be like at that precise moment: legs up in the air, with the skyscrapers hanging down, desperately clinging to the same wet pavements. As if to say that the whole world is a country: a country that has been turned upside down, but which Wong Kar-Wai's unconsciously generous gaze nonetheless makes worth living.

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