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Al termine di un programma di disintossicazione, un giovane 34nne è autorizzato a ritornare a Oslo per un inizio di reinserimento. Nell'estate luminoso della capitale ritrova le sensazioni perdute nella giovinezza, gli amori, gli amici; ma nulla che gli restituisca, malgrado un'evidente sincerità, una trattenuta sensibilità a fior di pelle, una simpatia emanata e che subito si trasforma in empatia per lo spettatore, le motivazioni che forse ancora nutriva. Ispirato dal celebre LE FEU FOLLET scritto nel 1931 da Drieu la Rochelle e portato sullo schermo in uno dei suoi primi film da Louis Malle, il soggetto di questo piccolo secondo film non ha nulla, in apparenza, che non sia stato già trattato: il percorso che dalla disperazione porta indifferentemente al reinserimento nel "sistema" psicologico, morale e sociale, con le sue consolazioni e le sue meschinerie. Oppure, all'interrogativo tragico ma in quei casi ineluttabile: va vissuta la vita, o meno? Il bicchiere, per forza di cose a metà vuoto o, affrontato lucidamente, il suicidio.

Ma è il tono di OSLO 31 AGOSTO ad essere indimenticabile. Melanconico, al tempo stesso leggero e consolatorio, mai didatticamente bloccato sul problema della droga. Profondo, umoristico e commovente, come nell'incontro, magnificamente sfumato in poche parole e significativi silenzi fra il protagonista e il collega di devianze giovanili, l'amico cui è riuscito di rifarsi una vita. E quella Oslo festaiola che si gode l'ultimo sole e che abbraccia con incosciente serenità un tragitto conosciuto e qui nei suoi aspetti più nobili; mai spiegato ma sempre interiormente vissuto nel quale ci si immedesima con comprensione e serenità.

Merito del suo protagonista miracolosamente introspettivo, Anders Danielsen Lie, che nella vita fa il medico: e qui si porta appresso il proprio spleen senza bisogno di mimiche volgari, con l'impassibilità di un dandy dalla solitudine che trapela a ogni minima emozione interiore, ogni trasalimento di un animo che si può indovinare angosciato, ma che si illumina di amore e comprensione. Merito anche di chi, come Joachim Trier, lo circonda di suoni e d'immagini quotidiane e banali, nella discrezione poetica di un'umanità forzatamente indifferente, ma vera, significativa, impossibile da banalizzare.

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At the end of a detoxification programme, a 34-year-old young man is allowed to return to Oslo for a beginning of reintegration. In the capital's bright summer, he rediscovers the feelings he lost in his youth, his loves, his friends; but nothing that restores the motivations he may still have had, despite his obvious sincerity, his restrained sensitivity, a sympathy that he radiates and immediately turns into empathy for the spectator.

Inspired by the famous LE FEU FOLLET written in 1931 by Drieu la Rochelle and brought to the screen in one of his first films by Louis Malle, the subject of this small second film has nothing, apparently, that has not already been dealt with: the path that leads from despair to reintegration into the psychological, moral and social "system", with its consolations and its pettiness. Or, to the tragic but in those cases unavoidable question: is life to be lived or not? The glass, necessarily half-empty or, faced lucidly, suicide.

But it is the tone of OSLO 31 AUGUST that is unforgettable. Melancholic, but at the same time light and consolatory, never didactically stuck on the drug problem. It is profound, humorous and moving, as in the meeting, magnificently nuanced in a few words and significant silences, between the protagonist and his colleague in youth deviance, the friend who has managed to rebuild his life. And that party-going Oslo that enjoys the last of the sunshine and embraces with unconscious serenity a journey that is known and here in its noblest aspects; never explained but always experienced inwardly, with which one identifies with understanding and serenity.

This is thanks to its miraculously introspective protagonist, Anders Danielsen Lie, who in life is a doctor: and here he carries his own spleen with him without the need for vulgar mimicry, with the impassivity of a dandy with a solitude that leaks out at every minimal interior emotion, every wince of a soul that can be guessed to be anguished, but which lights up with love and understanding. This is also thanks to those who, like Joachim Trier, surround it with sounds and images that are everyday and banal, in the poetic discretion of a humanity that is forcibly indifferent, but true, significant and impossible to trivialise.

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