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FESTIVAL DI CANNES 2000 (2): VON TRIER, WONG KAR-WAI
  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 giugno 2000
 
von Trier, Wong Kar wai, Yang, Jiang Wen, Shinji, Oshima, Yektapanah, Ghobadi, Lounguine, Moll, Desplechin, Assayas, Andersson, Ullmann, Gitai, de Palma, Ivory, Grey, (2000)
 

A VON TRIER LA PALMA CHE NON FA PRIMAVERA Le giurie si compongono come si può; e finiscono per comportarsi come possono. Dopo alcuni anni di verdetti intelligenti ma devianti, di interferenze nei confronti di una manifestazione strapotente ma non salva da qualche problema d'identità, a somiglianza di universo audiovisivo affetto da gigantismo e banalizzazione, oltre che destabilizzato dalla furiosa mutazione tecnologica che rende vana ogni pianificazione (ci ritorneremo, in occasione di bilancio stagionale) Cannes ha cercato di cambiare.Il presidente della Giuria, per esempio. Dopo il verdetto minimalista di un anno fa (Palma allo straordinario ma piccolo ROSETTA, due premi all'ingrato L'HUMANITE'; in un'edizione irripetibile dove c'erano opere d'invidiabile respiro popolare come quelle di Almodovar, Lynch, Kitano, Egoyan, Soderbergh, Jarmusch), fuori gli intellettuali, i cinefili alla Cronenberg, Scorsese o Bertolucci. E dentro Luc Besson. Esponente non solo del cinema di casa; ma di quello popolare, giovanilistico e non proprio elitario. Il risultato? Quello di sempre. Una Palma che è rivelatrice di una scelta; ed un corollario di premi di consolazione, dalle motivazioni spesso pretestuose, indici dei compromessi inevitabili di questi meccanismi festaioli. Ma in un verdetto cosi esposto come quello di Cannes, la punta dell'iceberg finisce pur sempre per affiorare. E le mezze verità per farsi luce, a dispetto dei vari giochetti di prestigio.Con buona pace per gli illusionisti, allora, a dispetto dalle etichette fuorvianti, il verdetto di Cannes 2000 non riesce a mascherare alcune cose. La prima è il trionfo del cinema asiatico (anche sulle ragioni di questo avremo modo di ritornare). I due capolavori indiscussi di quest'anno erano cinesi: YI YI di Edward Yang (Premio della Regia) e IN THE MOOD FOR LOVE di Wong Kar-Wai (riduttivo Premio all'Interpretazione Maschile). Ledue rivelazioni, pure cinesi, GUIZI LAI LE di Jiang Wen (Gran Premio della giuria) e giapponesi, EUREKA, di Aoyama Shinji. E giapponese è il veterano al quale è riuscito il miglior ritorno sulla Croisette: Nagisa Oshima, con TABU. Come non bastasse, una volta ancora l'Iran ha confermato la propria incredibile vitalità: la giovanissima Samira Makhmalbaf con LA LAVAGNA, prodotta anche grazie all'intuito di Marco Müller, ha visto giustamente sottolineato il proprio talento, e la sensibilizzazione al dramma di tutto un popolo con il Premio della Giuria. Ed a due giovani iraniani, Hassan Yektapanah e Bahman Ghobadi è andato l'ambita Caméra d'Or, assegnata alla miglior opera prima. Russo, infine, il gradevole LE NOZZE di Pavel Lounguine, al quale è andata una Menzione speciale.Ma c`è un secondo, assai meno rallegrante aspetto che i giurati del maggior avvenimento mondiale del cinema mascherano con diffcioltà: l'involuzione del cinema occidentale. Il fatto che quest'anno la Francia se ne torni a mani vuote è clamoroso: se il film di Dominik Moll, HARRY, è un noir dalle connotazioni psicologiche intelligenti ma che poteva anche apparire un po' leggero in un contesto internazionale, quelli di Desplechin e Assayas rappresentavano quanto di più ambizioso produce attualmente l'intellighentsia cinematografica di casa. Assenti la Spagna, l'Italia e sottotono la Gran Bretagna, non basta a rincuorare l'Europa un'opera fin troppo singolare ma isolata come CANZONI DEL SECONDO PIANO, dello svedese Roy Andersson (Premio della Giuria) e quella, socialmente ispirata ma involutiva rispetto al passato dell'austriaco Michael Haneke. Se poi teniamo conto che il più valido dei film europei, l'acutissimo INFEDELE con cui Liv Ullmann ha fatto rivivere la solita, grande sceneggiatura di Ingmar Bergman è stato ignorato (in quella che rappresenta la svista più notevole dei nostri; assieme all'aver dimenticato uno dei più straordinari film sull'assurdità della "guerra che siano mai stati fatti, KIPPUR, dell'israeliano Amos Gitai), la differenza con l'energia, la maturità, la poesia del cinema orientale è assolutamente crudele. Di questa torta mille gusti scotta, la ciliegina è rappresentata infine dal cinema americano. Sempre problematico a Cannes per le ragioni di data spesso evocate, mai come quest'anno però è apparso un concentrato di delusioni. Con il suo giudizio più balordo (Premio della Sceneggiatura all'inconsistente NURSE BETTY di Neil Labute) ci ha messo di suo anche la Giuria. Ma, sarà forse un caso, tutti gli americani presenti a Cannes quest'anno avevano innestato la retromarcia. Dai solitamente bravissimi fratelli Coen (vedi nostra nota nel numero precedente) con un abile ma forzato O BROTHER; a Brian de Palma, ineguale nel suo MISSION TO MARS rimediato a metà strada; a James Ivory, accademicamente ancorato alle sue eleganti chicche d'epoca; a James Grey, autore di uno dei più bei gialli degli ultimi dieci anni. Che qui ci riprovava con THE YARDS; ritrovando l'eleganza, ma non certo la lucidità e l'efficacia del precedente.Rimane, mi direte, e scusate se è poco, la Palma d'Oro. Di DANCER IN THE DARK leggerete di seguito. Diciamo qui che non è la rondine Lars von Trier a far primavera. Perché è un isolato, perché è un brillantissimo organizzatore di forme e di situazioni (i più ingenerosi fra i suoi avversari lo considerano il Lelouch delle nuove generazioni) ma un discutibile manipolatore di idee. Perché, in definitiva, sul suo spettacolare, affascinante ma un attimo ambiguo mondo poetico nessuno ha ancora le idee molto chiare. Il che può essere anche un buon segno. Stellette della critica internazionale, qualche dettaglio, e considerazioni più vaste sulla stagione cinematografica che Cannes, come sempre, spedisce con tutti al mare . LARS VON TRIER: DANCER IN THE DARKCome, ancor più che nel suo film più celebre, BREAKING THE WAVES (LE ONDE DEL DESTINO), Lars von Trier scatena le polemiche, divide coloro che lo adorano da quanti lo detestano. Della malattia e dell'ingiustizia, del lavoro e del denaro, quello del sogno e dell'incanto.: quello nel quale, come dice Selma, "non succede mai niente di brutto". Fotografate dal celebre Robby Müller secondo le nuove tecniche DV, - camera a spalla doverosamente Dogma danese, colore taglio, trama delle immagine raffinatamente elaborate - le realtà terrene ed i sogni musicali di DANCER IN THE DARK si organizzano allora in modo a dir poco straniante. E basterebbe una sequenza onirica coreografata (da non confondere con la meccanica perfetta di un corpo di ballo di Stanley Donen o di Minnelli) come quell'ultima panoramica musicale che la protagonista si concede sull'universo che la circonda prima di perdere la vista, per imprimere per sempre il film nella memoria. Al di là da un eventuale (intenzionale?) malessere che le tesi del film possono pure produrre (e provocare un dibattito salutare, in un mondo di capolavori congelati e subito dimenticati) è il mondo poetico di Lars von Trier a contare. E questi suoi ballerini, costretti a dibattersi nel buio delle nostre aberrazioni (la pena di morte, sulla quale il regista incredibilmente arriva a dissertare articolandola alle canzoni di Björk) sono le pedine di un gioco poetico destinato a rimetterci in questione. WONG KAR-WAI: IN THE MOOD FOR LOVE Due coppie che il caso conduce ad abitare una accanto all'altra, nella promiscuità di una pensioncina degli anni Sessanta a Hong-Kong. Una situazione perfettamente speculare: poiché i due protagonisti si rendono conto progressivamente della relazione esistente fra i loro rispettivi partner. Un terzo, inevitabile, pericolosamente (per il film) telefonato adulterio, si prospetta allora a questo punto: fra le due solitudini risultanti, fra la coppia, come non bastasse più glamour di tutto il cinema asiatico, quella composta da Maggie Cheung e Tony Leung& Conclusione affretta come poche: per che ignora la delicatezza e la fragilità di tutta una cultura, la psicologia che non è proprio quella del zompiamoci addosso prima di pensarci due volte, le relazioni complesse all'interno di una società attenta alle convenzioni. Nonché la cura suprema nel gioco del segno, il gusto per le architetture del doppio di un regista fra i più raffinati in circolazione.Con una faccenda tranquillamente esplosiva come questa (un po' come far capitare Julia Roberts e Richard Gere nella stanza accanto, magari con il bagno in comune) Wong Kar-Wai fa ciò che dovrebbe fare ogni grande artista in casi del genere: la piega, con una misura ed una grazia incomparabile, al proprio volere creativo. Negli spazi claustrofobici, spaventosamente coinvolgenti per l'intimità delle sue creature, attraverso le trasparenze che sfumano cosi preziose dalle sue lenti d'ingrandimento, i suoi rossi saturi, i verdi, gli azzurri gloriosi che stemperano, quando è il caso nella dolcezza dei pastelli dorati o ingrigiti, osserva i propri insetti. Ma non da entomologo, da freddo scienziato. Da erede di una tradizione; che il tumulto dei sentimenti, per tacere del resto, sa trasformare in energia spaziale, coloristica, musicale. Da maestro del melodramma; che come un incredibilmente pudico Bresson cresciuto fra le pulsioni della passione giunge a significarne il furore nell'assoluto ritegno. Una mano sfiorata quasi inavvertitamente, una pantofola chi si dondola all'estremità di un piede, uno spiraglio di luce che s'introduce da una porta socchiusa si caricano allora dell'eco devastante di mille rinvii emotivi. La forza di IN THE MOOD FOR LOVE nasce da questo fortissimo contrasto, magistralmente padroneggiato: fra il rigore di un contenitore e l'energia emotiva di un contenuto, la mortificazione della solitudine e l'esigenza della passione.

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