Dopo dieci anni di assenza un padre ricompare nella vita dei suoi figli; per condurli in un viaggio, realistico ed astratto al tempo stesso. Itinerario verso un'isola del lago Ladoga, ed una missione misteriosa; e verso quella conoscenza, dai rinvii evidentemente mitologici, che assumerà i contorni di una esecuzione più o meno involontaria.
Opera prima splendida e sapiente (qualcuno dice fin troppo) che sembra rinnovare il lirismo, la melanconia, il senso della natura e dell'ambiente del grande cinema russo, sorprendente Leone d'Oro ala Mostra veneziana del 2003, IL RITORNO farà anche pensare un po' troppo a Tarkovski o Antonioni. Ma è uno di quei film il cui tono, la densità della sua stessa tessitura (la cadenza del ritmo drammaturgico, la raffinatezza della fotografia, l'incombenza del commento musicale), il coinvolgimento emotivo che sottintende, finiscono per imprimersi a lungo nella memoria dello spettatore.
Andrei Zvyagintsev ha costruito il suo film sui silenzi. Quelli dell'ambiente, dell'unione con l'ordine eterno della natura nella quale sono immersi i suoi personaggi; e quelli, fatti di un isolamento ai limiti della crudeltà, di un padre autoritario e repressivo (oppure cosciente del proprio ruolo iniziatico?) fino all'ambiguità. Silenzi opprimenti: per la comprensione di un comportamento che lo spettatore fatica a delucidare. Ma, ancor più, per la comunicazione, tesa fino allo spasimo (l'interpretazione dei due ragazzi - l'adolescente compiaciuto, il minore ribelle - è straordinaria e commovente) fra le diverse psicologie: nella fatica di diventare, da una parte come dall'altra, ineluttabilmente adulti.