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ORE DISPERATE
(DESPERATE HOURS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 gennaio 1991
 
di Michael Cimino, con Mickey Rourke, Mimi Rodgers, Kelly Lynch, Anthony Hopkins (Stati Uniti, 1990)
 
Autore di film che hanno segnato indelebilmente un momento della storia del proprio paese (IL CACCIATORE), di altri che con la loro splendida grandiloquenza hanno marcato la fine dell'opulenza hollywoodiana (I CANCELLI DEL CIELO), di folgoranti quanto fraintese riflessioni sulla società contemporanea (L'ANNO DEL DRAGONE) o di clamorosi atti di presunzione sia artistici che produttivi (IL SICILIANO), Michael Cimino potrebbe essere l'ultimo dei grandi registi americani. O, quantomeno, l'ultimo di quella razza che ha fatto del cinema di Hollywood un modello imprescindibile per coloro che hanno fatto progredire l'arte dell'immagine: quella dei cineasti maledetti.

Come nel cinema dei Minnelli, dei Ray, Hellman, Stroheim, Cukor, Corman, Mann, Fuller, Sirk e tanti altri in quello di Cimino, dietro ad un film nato da una modesta comanda (nel soggetto, nel budget, nella psicologia, nella finalità) si nasconde un altro film: infinitamente più grande, poiché trasceso dall'arte della regia. È stata una delle grandi lezioni di Hollywood, quella che ha permesso di far risaltare in tutta la sua forza, la sua specificità il linguaggio cinematografico: la miseria, l'opportunismo (culturale, commerciale) del produttore e della sua comanda obbligavano il cineasta a spremersi il cervello, a violentare la propria immaginazione, a trascendere il proprio sguardo per riuscire a trasmettere "qualcosa" dietro alla banalità del prodotto.

A parte qualche privilegiato dal sistema (Ford, Hawks, Huston), qualche geniale prestidigitatore capace di nascondere l'arte dietro le forme dell'evasione (Chaplin, Hitchcock, De Mille) è anche grazie a questi contrabbandieri dell'immagine, a questi doppiogiochisti dei significati secondi che si è plasmata l'arte dei movimenti di macchina, delle inquadrature e delle illuminazioni, dell'uso del colore e dello spazio e via dicendo.

ORE DISPERATE è la storia di una presa di ostaggi, remake di un film con Humphrey Bogart girato da William Wyler. Nessuna importanza: un soggetto misero, scontato e banalizzato, oltre che - sul finale - ai limiti del reazionario: nella villa di una coppia di benestanti in istanza di divorzio con ragazzini-che-ne-soffrono capitano tre gangster in fuga, aiutati dall'avvocatessa-amante del capobanda che è riuscita a farlo fuggire dal carcere. Vicissitudini del caso, accerchiamento della polizia con bombardamento a tappeto, marito e moglie che ritrovano reciproco rispetto, amore e lunga vita.

Ma vediamo invece come inizia questa lagna: un paesaggio mozzafiato nell'autunno dell'Utah, l'aria tersa come uno specchio, i colori saturi dell'estate che se ne è andato, le montagne appena macchiate dalla prima neve, un'autostrada che bordeggia il lago di montagna, la Jaguar decappottabile nera che irrompe e si ferma nel posteggio deserto sulle rive controluce, un unico albero fiammeggiante di foglie che incominciano a staccarsi ai primi brividi della stagione.

Nell'alternanza d'inquadrature esasperate - immensi grandangolari che ingigantiscono la prospettive, lunghissimi teleobiettivi che cavano i dettagli più remoti inserendoli nel discorso - la cinepresa si muove dall'infinitamente solenne del paesaggio a qualcosa di altrettanto glorioso anche se più prosaico: si apre la portiera della Jaguar per far posto a due gambe ancor più infinite e sinuose dell'autostrada, due tacchi all'altezza della situazione che si allontanano sfrigolando sulla ghiaia. E su tutto ciò, come non bastasse, una bionda strepitosamente impossibile, tutta spacchi, vertigini e suggerimenti vari.

Senza perder tempo in dissolvenze, cambio di scena, stessa bionda, stesse vertigini: ma in tribunale, dove difende Mickey Rourke accusato di nefandezze varie, comunque più insopportabile che mai . Qui (non proprio li, in tribunale, ma nella cella, al termine dell'udienza) le due gambe si offrono ancor di più alla vista dello spettatore. Per svelare, oltre all'inguine che avvicina pericolosamente la mano del fuorilegge, una pistola infilata nel reggicalze: conclusione - ed al tempo stesso avvio della vicenda - di un prologo tanto improbabile quanto folgorante, di una bellezza sfacciatamente sontuosa, che difficilmente sfuggirà alla memoria.

Due immagini prese a caso da questo prologo bastano a farci partecipi di una faccenda di passione: di un rapporto di amore - odio, di un regolamento di conti fra un creatore e la propria creatura, fra la rabbia di uno sguardo che si scontra contro la realtà osservata.

Quello di Cimino è il cinema di tutti i fantasmi. E di tutte le trasgressioni. Iperrealismo formale, certo: i colori saturi, le illuminazioni violente, le inquadrature esemplari, gli atteggiamenti scultorei, i suoni dilaganti. Ma iperrealismo della morale, della logica, della psicologia, dell'erotismo, del riferimento alla situazione drammatica, al mito cinematografico. Tutto stravolto espressivamente, fino a confondere - drammaticamente, ma anche umoristicamente - i parametri ai quali siamo abituati

Cinema, anche, degli estremi. Non solo perché tutto giocato sopra le righe, ma perché teso verso due diversi poli. Da un lato la dimensione claustrofobica dell'appartamento: nel quale, illuminato come un disperato shakespeariano, il protagonista consuma il rito abituale della violenza con gli ostaggi, ma ritrova anche quel senso del domestico, del familiare, che gli era ormai assente. E dall'altro le uscite negli spazi aperti, in un contrasto violento che viene a rinvigorire la vicenda scontata: come nella meravigliosa, e così tipicamente ciminiana, sequenza della fine sul fondo del canyon di uno dei banditi. Nella solita luce trionfante, con il cervo straniante de IL CACCIATORE che osserva stupito l'intrusione, i cavalli che si dissetano nel fiume prima di scostarsi, per svelare la figura del bandito ormai nel mirino degli inseguitori. Visione romantica, estremamente liricizzata dallo splendore del paesaggio, dell'eroe di Cimino: quel fuorilegge, tipico del western ma anche del film giallo americano, che pur vivendo fuori dalla legge e dalla morale comune (o forse proprio per questo) riesce a raggiungere una sorta di purezza, di stato di grazia momentaneo (prima dell'intervento finale della giustizia) che gli permette di esistere fuori dall'ipocrisia sociale. Come in quel verso di Bob Dylan: "It takes an honest man to live outside the law"...

Bipolarità, come già ne L'ANNO DEL DRAGONE, anche degli schemi di comportamento, dettati dalla struttura del film: da una parte come dall'altra, da quella del cosiddetto Bene a quella definita del Male, del bandito con le sue vittime, come dal responsabile della Legge coi suoi collaboratori, ma anche dal capofamiglia con gli altri membri del nucleo, la logica dei rapporti di forza è la medesima.

Al centro di queste tensioni, dilaniato da queste lotte di potere sta l'eroe romantico, puro ed utopico, tradito non solo dalla società ma ovviamente, (come qui Mickey Rourke dalla strepitosa Kelly Lynch) anche dall'Amore.

Chi dal cinema si aspetta la quadratura del cerchio delle proprie convinzioni, si astenga vivamente dalla visione di ORE DISPERATE. Ma chi alla sala oscura chiede croci e delizie offerte dall'arte incerta della regia, corra allora a perdersi nel disperato sarcasmo di Michael Cimino.


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