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FATIMA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 maggio 2016
 
di Philippe Faucon, con Soria Zeroual, Zita Hanrot, Kenza Noah Aiche, Chawki Amar (Francia, 2015)
 
Quando la spinta umanitaria, morale e politica si traduce con semplicità e tenerezza nei dettagli apparentemente insignificanti del quotidiano, quando il naturalismo scaturisce dal privilegio pudico dei primi piani, degli sguardi e silenzi, dell'assenza d'inutili decorativismi visivi, sonori e musicali, il cinema legittima le proprie pretese artistiche. Nato in Marocco, Philippe Faucon è dal suo primo lungometraggio L'AMOUR (premiato a Cannes nel 1990) che prosegue questo cammino: interrogandosi con una delicatezza che non ha mai ceduto alla lucidità sui problemi dell'intimo che si scontrano con quelli della società.

Attraverso SABINE o MES DIXT-SEPT ANS, si accostava all'adolescenza confrontata con l'omosessualità, l'anoressia o la sieropositività; o nel sensibilissimo SAMIA (2012), alla semplice esigenza, per suoi immigrati maghrebini, in particolare femminili, di liberarsi da un universo di costrizioni e prevaricazioni. Di aspirare a una modernità circostante che potesse salvarli dagli scontri e le ferite provocate nelle diverse generazioni dalle brutali migrazioni della nostra epoca. Infine, LA DESINTEGRATION rifletteva (già nel 2011!) su quell'immigrazione in Francia che conduce talvolta alla violenza e al terrorismo, sottolineando il sentimento di esclusione nei confronti della società dei suoi tre giovani protagonisti: che finirà per permettere la loro manipolazione, il fanatismo, l'indottrinamento tragico.

Dall'immigrazione all'integrazione. FATIMA (Cèsar 2016 del Miglior Film francese) rovescia in dolcezza ma magistralmente quella prospettiva. Sempre su suolo francese, a Lione, Fatima (meravigliosa Soria Zeroual) è d'origine marocchina, quarant'anni, e ancora parla quasi solo in arabo. Ma sue figlie le rispondono in francese. Separata dal marito, vera e propria madre coraggio, Fatima accumula le ore di lavoro come donna di pulizie: per mantenere Nesrine, che sta iniziando a studiare medicina, e Souad che la respinge e la definisce uno straccio, mentre bigia al liceo.

Poteva uscirne un melodramma accademico o lacrimoso: l'arte di Faucon, la sua estrema dolcezza nell'esplorare il bel viso della protagonista, nel concentrarsi con brevi piani sequenza sui suoi formidabili attori (quasi isolandoli con il veloce montaggio dall'ambiente, ma condividendone così l'intimità) conduce invece lo spettatore a una commovente identificazione con i personaggi. Merito della sensibilità del cineasta nell'evitare ogni enfasi, sentimentalismo o dimostrazione, della qualità di una regia che sa cogliere soltanto ciò che è essenziale. Merito di una sceneggiatura che riconduce le situazioni di razzismo quotidiano o gli scontri generazionali a una intuizione poetica e al tempo stesso sociale e culturale: la frustrazione di Fatima è nei confronti di una lingua, che lei stenta a far sua. Di quel francese che apparentemente emancipa le figlie; ma che al tempo stesso le allontana da sé. Segretamente, su un quaderno, non nel francese che ancora fatica ma in arabo, Fatima comincerà a scrivere. A esistere.


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