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di Gianni Amelio, con Kim Rossi Stuart, Andrea Rossi, Charlotte Rampling
(Italia, 2004)
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Dai tempi di LADRO DI BAMBINI, da quando Gianni Amelio si mise a fare dei film piccoli dopo i soggetti grandi dei primi tempi (l'utopia di LA CITTA' DEL SOLE, il terrorismo di COLPIRE AL CUORE, la pena di morte di PORTE APERTE ) il suo cinema più ispirato si è costruito su un viaggio; che da fisico e materiale si fa morale e quasi astratto. Un itinerario; che serve ad un protagonista per vederci finalmente più chiaro. Paradossalmente, (ma non poi così tanto: l'interesse del film sta proprio da questo), il protagonista di LE CHIAVI DI CASA non è in definitiva il bravo e accattivante quindicenne disabile subissato di applausi all'ultima Mostra di Venezia; quanto un altro anormale affettivo, esistenziale, o se volete morale ed a priori assai meno simpatico, suo padre. Che l'ha rifiutato ed abbandonato dal giorno della nascita. Per riuscire finalmente ad avvicinarlo, amarlo e, soprattutto, a scavare in sé stesso; grazie, appunto, allo spaesamento fisico offerto da un viaggio a Berlino, in una clinica ortopedica. Paolo, l'handiccapato, parla e deambula in modo sconnesso: ma, trascorsi pochi momenti di sorpresa per lo spettatore, la sua è una figura che irradia allegria e serenità, in un'apertura fiduciosa e forte alla vita, priva di ogni rancore. Gianni, il padre (ed è noto il coinvolgimento personale di un autore come Amelio), si cela dietro alla seduzione dei lineamenti di Kim Rossi Stewart. Ad una gestualità che il regista ha voluto quasi assente, ai confini di una amarezza che è ormai rinuncia; ma che finirà per mutarsi in imbarazzo, in colpevolezza e, nella seconda parte tutta in progresso del film, in toccante ammissione di fragilità. I ruoli si rovesciano, le filosofie si relativizzano; in un finale epurato da ogni strumentalizzazione melodrammatica, sarà il figlio (Non è una bella cosa che tu pianga
) a trasmettere al padre dignità, energia e coraggio. Da quel film sdrucciolevolmente strappalacrime che minacciava di essere, LE CHIAVI DI CASA rimette così in gioco equilibri e certezze. In un invito alla riflessione esistenziale, alla riconsiderazione dei preconcetti sulla diversità giustamente dovuti al romanzo autobiografico di Giuseppe Pontiggia al quale si ispira. Come già in passato, Amelio riesce ad astrarre dagli impacci immediati dei racconti e delle situazioni grazie all'oggettività del proprio sguardo: a quel modo di legare i significati di ciò che accade nell'intimo dei personaggi ad un ambiente ripulito da ogni sua banale evidenza. Non solo per il tono ( Non sono come Comencini diceva Amelio già ai tempi di IL LADRO DI BAMBINI - che filma dei bambini incompresi, nei quali riconoscersi. Dei miei mi servo per mettere in scena la cattiva coscienza degli adulti .); ma per lo stile. sul filo della fotografia di Luca Bigazzi, il pregio di LE CHIAVI DI CASA è di riandare al de Sica al quale sembrerebbero rinviare i bambini di certi suoi film; ma di riferirsi alla stilizzazione esistenziale di un Antonioni, ad una innocenza dello sguardo in intimità espressiva con l'ambiente che ricorda la lezione di Rossellini. Di fare, perlomeno nei suoi momenti migliori, privi di un sospetto di dimostrazione, cinema; e non colletta sentimentale.
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