La mia vita con John F. Donovan è il settimo lungometraggio nel corso dei dieci anni di una sequenza difficilmente ripetibile; iniziata da un canadese diciottenne canadese su una sceneggiatura scritta quando di anni ne aveva sedici. Un regista dal quale, apparentemente, saremo sempre in attesa d’imprecisate ma comunque esaltanti rivelazioni.
Sarà questa la fuga in avanti, a volte disagevole, che il futuro riserva a Xavier Dolan? E’ la prima delle domande che viene da porsi, non appena conosciute le scomposte vicissitudini vissute da questo suo primo film estraneo agli sfondi casalinghi dolaniani, parlato in inglese, concepito fra gli insidiosi paraggi hollywoodiani. E quando, come non bastasse, ancora non si era voltata pagina sul discusso esordio del film in autunno al Festival di Toronto, appena digerita la notizia della scomparsa di tutte le sequenze girate con Jessica Chastain nella nuova versione ricondotta da quattro a due ore.
Fra polemiche e litigi Dolan ha già portato a Cannes la sua ottava pellicola, Matthias et Maxime. Girata questa ritornando agli ambienti del natale Québec, qualcosa a cavallo fra Tom à la ferme e Mommy, interpretato dall’attrice feticcio Anne Dorval. Nel frattempo, ecco finalmente La mia vita con John F. Donovan. A proposito del quale è doveroso perlomeno premettere l’onestà di una trasparenza nella quale si muove: pur rimontato clamorosamente a fondo com’è stato. Un’ispirazione dichiaratamente autobiografica: da parte di qualcuno che a otto anni aveva effettivamente scritto delle lettere, rimaste inevase, a Leonardo DiCaprio. Oggi, Dolan diventa così con molta evidenza nel film Rupert Turner (interpretato nel film da Jacob Tremblay), l’aspirante attore che ha appena pubblicato una corrispondenza scambiata da bambino con John F. Donovan, la star di una serie televisiva americana. Il tutto, dieci anni dopo la morte di quest’ultimo: il che obbligherà il protagonista a mentire sulla propria natura, sulla relazione avuta con lo scomparso. Sulla difficoltà di evidenziare un’omosessualità che non potrebbe che avere conseguenze nefasta sulla propria immagine.
Nel suo laborioso, amputato travaglio, il film affronta molte, troppe cose. A cominciare dal tema della pressione mediatica; del rischio, come capita ai due protagonisti, di mettere in gioco i propri destini a cominciare da quelli professionali. Il tutto complicato dal fatto che il Rupert bambino è descritto nella sua infanzia in Inghilterra; mentre John vive a New York, in un’atmosfera del tutto diversa, in un amalgama che con difficoltà riesce a relazionarsi a vicenda.
I rapporti di forza con la figura materna, i nodi che appartengono da sempre alla personalità dell’autore, sono coniugati qui da ben due madri, le splendide Susan Sarandon e Natalie Portman: ma pure in questo caso la loro ambivalenza nell’amore-odio che attraversa i diversi ritratti dell’autore, vengono a scontrarsi con la costruzione ripulita, forse semplificata della pellicola.
Condizionato dalla natura del proprio parto, La mia vita con John F. Donovan risente allora di molti di quegli scompensi. Detto questo, sarebbe irragionevole toglierli i momenti di grande piacere che il cinema di Xavier Dolan continuare a dispensare. A cominciare dalla sua inimitabile foga creatrice, di un piacere, che sarebbe assurdo soffocare, nel fondere l’intuizione del proprio sguardo inseritoin un particolare universo formale, spaziale, cromatico, musicale. Esaltante, ma mai fine a sé stesso, anche quando appoggiato a una costruzione come in questo caso alterata. Molto ci dirà il nuovo Mathias et Maxime: a cominciare dalla volontà o meno di una certa semplificazione (che i suoi avversari definiscono ormai scienza spiegata al popolo) che minacerebbe il cinema dell’enfant prodige a partire da E’ solo la fine del mondo del 2016. No, Xavier Dolan non è ancora le versione oltreoceano di Claude Lelouch.