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Nei trent'anni che ci separano dal Ballroom Dancing del suo esordio, nella sua saltuaria presenza da regista che ne è seguita, di Baz Luhrmann non rimarranno forse che due capolavori, Moulin Rouge (2000) ed ora questo Elvis. Pochi, ma impossibili da dimenticare.
Elvis non è un banale biopic, meglio dirlo subito. Poiché Luhrmann riesce, e clamorosamente visto che ci credevano in pochi, a raggiungere ciò che era sfuggito a tutti coloro che l'avevano preceduto. Esprimersi grazie a un cinema che rifletta esattamente il proprio soggetto.
Ecco il giovane australiano emigrato negli Stati Uniti poi diventato allievo di Peter Brook, il maestro della stravaganza narrativa, padrone di una dismisura quasi sfrontata, l'ingordo protagonista della manipolazione cinematografica prima di sciogliersi in una sorta d'ipnosi non solo musicale per rispecchiarsi alla perfezione nella parabola del re del rock.
Si è detto di Elvis Presley, scomparso a 42 anni, che sia stato l'uomo di spettacolo che più si sia inserito nella coscienza dell'America. Ciò che in effetti le immagini stravolte di Luhrmann ottengono è che il film non si adagi mai a significare il tradizionale percorso dell'irresistibile ascesa di una star alla quale fa seguito la ricaduta del fenomeno.
Dalla prima formidabile sequenza sul palcoscenico degli Anni Cinquanta è infatti un corpo tutto, non solo una voce a dilagare nelle immagini catturate dal cinema. Esplicite, sensuali, violente come raramente, accostate allo slancio proteso, inarrestabile e vorace delle spettatrici che invadono lo schermo. Premonitrici, forse, del sentimento d'imprevedibile malinconia che finirà per impossessarsi della vicenda e dei suoi significati nella seconda parte..
Altri elementi contribuiscono al sorprendente equilibrio instabile di Elvis, primo fra tutti la scoperta di Austin Butler, al quale riesce l'impresa considerata impossibile d'impossessarsi della straordinaria fisicità del protagonista, d'incollarsi alla sua evoluzione nel tempo, alle mutazioni minime di una gestualità e di un timbro vocale entrati nel mito. Tom Hanks sovrasta poi con tutta la sua esperienza nel tratteggiare la figura del Colonnello Parker, leggendario, ambiguo manager che attraverserà tutta l'esistenza di Elvis. Proteggendolo, forse, o distruggendolo.
Tutto riflette la storia con la maiuscola. Martin Luther King, Bob Kennedy, Sharon Tate quasi inevitabilmente inevitabilmente scorrono sullo sfondo. Ma se il il film scava così ferocemente nel proprio geniale disordine è per i suoi ingranaggi troppo spessi abusati. Come quei suoi split screen (lo schermo frammentato per mostrare i diversi aspetti dell'istante presente) che Baz Luhrmann quasi miracolosamente riscopre per sviscerare l'intimità del Re. Indimenticabili.
* Vogliate p.f. cliccare su www.filmselezione.ch per la lettura completa della raccolta di critiche cinematografiche FILMSELEZIONE di Fabio Fumagalli
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In the thirty years that separate us from his debut Ballroom Dancing, in the occasional directorial appearance that followed, all that will remain of Baz Luhrmann are perhaps only two masterpieces, Moulin Rouge (2000) and now this Elvis. A few, but impossible to forget.
Elvis is not a banal biopic, it is better to say so now. Because Luhrmann succeeds, and resoundingly so since so few believed in it, in achieving what had eluded all those who had preceded him. To express himself through cinema that exactly reflects his subject.
Here is the young Australian who emigrated to the United States and then became a pupil of Peter Brook, the master of narrative extravagance, the master of an almost shameless excess, the greedy protagonist of cinematic manipulation before dissolving into a sort of hypnosis that is not only musical, to mirror himself to perfection in the parable of the king of rock.
It has been said of Elvis Presley, who passed away at the age of 42, that he was the showman who most embedded himself in America's consciousness. What Luhrmann's overwrought imagery actually achieves is that the film never settles for the traditional path of a star's irresistible rise followed by the phenomenon's fallout.
From the first formidable sequence on the stage in the 1950s, it is in fact a whole body, not just a voice, that is rampant in the images captured by the cinema. Explicit, sensual, violent as seldom, juxtaposed with the outstretched, unstoppable and voracious momentum of the spectators invading the screen. Premonitory, perhaps, of the feeling of unpredictable melancholy that will eventually take possession of the story and its meanings in the second part.
Other elements contribute to Elvis's surprisingly unstable balance, first and foremost the discovery of Austin Butler, who succeeds in the feat considered impossible of taking possession of the protagonist's extraordinary physicality, of sticking to his evolution over time, to the minimal mutations of a gesture and a vocal timbre that have become legendary. Tom Hanks then overpowers with all his experience in portraying the figure of Colonel Parker, the legendary, ambiguous manager who will traverse Elvis' entire existence. Protecting him, perhaps, or destroying him.
Everything reflects history with a capital letter. Martin Luther King, Bob Kennedy, Sharon Tate almost inevitably run in the background. But if the film digs so fiercely into its own ingenious disorder, it is because of its overused gears. Like those split screens (the screen fragmented to show the different aspects of the present moment) that Baz Luhrmann almost miraculously rediscovers to eviscerate the King's intimacy. Unforgettable.
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