"Sei pronto? Non ancora!", si gridava da piccoli, giocando a nascondino. Succede anche ai giapponesi: se è vero che il più celebre dei loro cineasti, il mitico autore di RASHOMON, ha fatto di questa replica il tema del suo ultimo film. Proponendoci così un suo ennesimo (così erano già stati definiti SOGNI e RAPSODIA IN AGOSTO), gioioso testamento. "Madadayo" (non sono ancora pronto: a morire, ovviamente) è la risposta ricorrente del vecchio maestro Uchida, figura autentica, spesso contrapposta a quella di Mishima, più noto in Occidente. Insegnante di tedesco, scrittore, pensatore; ma, soprattutto, "sensei". Guida spirituale, cioè, e morale: un modello di vita, un esempio di lucidità, di serenità e di umiltà da venerare. Cosa che fanno i vecchi allievi: rendendogli visita, aiutandolo materialmente nel suo precario pensionamento; ma anche festeggiando con l'irriverente e caustico pensatore, a colpi di canti rituali e doverose libagioni di birra e sakè. L'omaggio si svolge così, dall'ultima giornata in classe nel 1942 al dopoguerra, con gli americani in jeep: attraverso una parca e sapiente stilizzazione dell'ambiente, sufficiente a ricentrare i personaggi nella storia. Fino all'incidente, irrilevante e futile per lo spettatore: scompare il micio del Maestro. E lui crolla: lui, il resistente alle vicissitudini morali e materiali della vita, lui, il brillante trasgressore delle costrizioni più umilianti del quotidiano, si trasforma in un vecchietto distrutto e piagnucoloso. E, al tempo stesso, più contraddittorio, più fragile: insomma, più umano.
È a questo punto che MADADAYIO si fa più chiaro, poiché Uchida è Kurosawa. Fino all'autoagiografia più sfacciata, all'ammissione più indecente: anche il maestro dei più ardui equilibri esistenziali, il creatore più ammirato universalmente, può spezzarsi per la scomparsa di un gattino. Per l'insuccesso di un grande film come DODES'KADEN l'autore di RASHOMON tentò il suicidio: perché non potrebbe, il divino Uchida, far dubitare di sé i suoi devoti e quasi fanatici discepoli?
C'è da dubitare che gli ammiratori del Kurosawa più spettacolare (quello dei SETTE SAMURAI o di RAN) rimangano incantati da questo: non tanto crepuscolare, quanto legato ai rituali, alle rimesse in gioco, alle ripetizioni. Eppure, in questa tragicomica contabilità degli affetti, in questo suo modo di relativizzare gli onori e l'importanza dei valori, di mettere a nudo il proprio narcisismo come la propria fragilità, la propria esigenza d'amore come il proprio diritto ad una scelta di vita (non a torto qualcuno ha citato la frase celebre di GIACOMETTI: "in un incendio, dovendo scegliere tra un gatto ed un Rembrandt, io scelgo il gatto") c'è tutto Kurosawa.
Che ha fatto i Rembrandt, ma pianto per i gatti.