Dalla primissimi sequenza, la verità psicologica, sociale, ambientale dei personaggi s'impone. Vincent Lindon, lo sappiamo, è insuperabile nell'esprimere, senza l'ausilio di una sola parola, la presenza di una massa corporale, di una gestualità che traducono con limpidezza inequivocabile i sentimenti che agitano il personaggio. Senza trucco, a viso esemplarmente scoperto, Sandrine Kimberlain è la maestrina che con il muratore affronterà un'attrazione reciproca inattesa, mai ricercata. Fondere l'impossibile incontro fra la manualità dell'uno e la spiritualità dell'altra diventa allora il compito dello sguardo minimalista di Stéphane Brizé, attentissimo di conseguenza agli infimi dettagli, alla significazione degli abissi che si creano nei tempi morti. A quel modo, la banalità del quotidiano, la normalità dei personaggi, la scelta del non-detto acquistano un pudore commovente.

Certo, il ritegno melanconico del regista corre sul filo pericoloso che divide la misura dal vuoto, l'intervento dall'aridità, la lucidità dal candore; certo, il finale con il treno che scompare alla stazione appartiene alle regole di un melodramma che il film ha evitato miracolosamente. Ma quant'è diversa la sensibilità del cinema di Stéphane Brizé nei confronti delle baracconate spiegate al popolo che ci circondano.