Il caso Bruno Dumont è sempre più straordinario, nel quadro di una produzione cinematografica che sorprendente arrischia di esserlo sempre di meno. I suoi film intransigenti, tragici, rispettati ma non proprio appetibili a un vasto pubblico come La vie de Jésus, L’humanité o Flandres ci avevano abituato ai suoi personaggi estremi, rassegnati alla condizione immutabile di quel Nord della Francia incastrato nelle pietre, semideserti nella furia del vento o annichiliti dalla calura estiva Un universo personale, austero, sconsolante e animato da una specie di fede istintiva, laica; che quel naturalismo rivelava sotto l’animalesca brutalità, la violenza ancestrale dei personaggi.
Ora, tutto, o quasi, è rimasto identico. I paesaggi, incorniciati con un senso affascinante dell’armonia, gli ambienti, sempre indicativi, “normali” eppure stranianti; e, in definitiva, anche i personaggi e i temi, pur nella loro eccentricità estrema. Allo stesso tempo, dopo la svolta e lo straordinario successo anche di pubblico della mini-serie televisiva Le P’tit Quinquin , tutto è cambiato. Clamorosamente capovolto. L’amarezza nell’animo è forse ancora presente, ma il tono ha subito una trasformazione radicale. Si è fatto a prima vista comico, a tratti esilarante; e poi delirante, surrealista. Una farsa, che non rinuncia a quei sottintesi sociali e politici sui quali poggiavano i suoi drammi precedenti E anche se Ma loute è apparentemente un film epoca, con una famiglia di ricchi borghesi di Tourcoing che trascorre l’estate negli Anni Venti in una villa assurda di stile egiziano (sic) ai bordi della Manica. Ogni componente è una caricatura ambulante. Ma non gratuita; nei segni premonitori, di una degenerazione che non dimentica tante derive attuali.
Agli attori in stato di grazia a dir poco euforico, a un Fabrice Luchini incredibilmente pomposo o una Valeria Bruni Tedeschi dall’isteria spassosamente trattenuta, questo permette ogni sorta di fantasia e atteggiamento; in conformità allo stato genialmente sopra le righe di tutto il film.
La visione di Bruno Dumont non induce soltanto a risate: si significa ad ogni istante in un’arte paradossale della citazione che contribuisce a moltiplicare il piacere dello spettatore. Ricorsi continui agli slapstick, (le gag fatte di ruzzoloni da cinema muto che fanno dei due investigatori del film degli emuli di Stanlio e Ollio), di un uso parodistico dei suoni tipico di Jacques Tati; quindi in successione più o meno ordinata, burlesque e gore, situazioni fantastiche o visionarie, riflessi addirittura felliniani o bergmaniani. Certo, sono autori che non avrebbero fatto ricorso al cannibalismo di una famiglia di pescatori di cozze, angeli o demoni, come riflessione (pure questa attuale) sugli abissi crescenti fra miseria e agiatezza estrema. Oggi, però, moralisti si può essere anche in tanti modi.