Il ricordo di MABOROSI è di quelli che vi perseguitano a lungo. Delle inquadrature fisse di una bellezza folgorante, la quasi assenza di movimenti di macchina e di primi piani, la scelta, al contrario di grandi angolazioni in un film intimista, quello di suoni terribilmente presenti che ci riportano sulla terra, annullando il rischio del compiacimento estetico. È la geometria squisita di uno spazio mentale. Quello, mai gridato eppure sconvolgente di Yumiko, una giovane donna turbata dal ricordo e dall'ingiusto senso di colpevolezza per la scomparsa di due esseri che le erano cari. La nonna, che quando lei era bambina aveva abbandonato la casa; ed il giovane marito, con il quale viveva felicemente, scomparso per un incomprensibile suicidio. MABOROSI è un film sull'indicibile, sul mistero della vita e della morte, sulla fragilità dell'essere umano nei confronti di quel mistero. Senza essere mistico, ne tanto meno religioso è un film sulla fede: in quel territorio del non-detto, dell'inspiegabile, che non dev'essere necessariamente fonte dell'angoscia. Piuttosto, se sorretto dalla forza dell'evasione poetica, di consolazione e di gioia.
Costruito con sapienza confondente sul potere della luce, nell'affiorare dalla confusione della penombra per illuminarsi nella trasparenza dei suoni, quello dell'esordiente (!) giapponese Hirokazu Kore-eda è un film che parlando della morte finisce per imporre con energia commovente la presenza della vita. La risonanza imperiosa dell'ambiente (una periferia urbana solcata dal continuo transitare dei treni; gli interni di quotidianità serena scanditi dalla radio del vicino; il furore incombente del mare su una piccola comunità di pescatori) si contrappone al pudore infinito della semplificazione formale. Il raziocinio, la psicologia si fanno allora da parte; lasciando il posto ad una delicata intimità con i personaggi, un immenso rispetto per i loro sentimenti.