Se c'era del marcio nel shakespeariano regno di Danimarca, non è che in quello contemporaneo di Cinelandia le cose vadano molto meglio. Considerando che quello che per molti è il miglior film della scorsa stagione (e ancor superiore al raffinatissimo IN THE MOOD FOR LOVE di Wong Kar Wai) viene svilito a tempo di grotti. E si che l'ultimo film del taiwanese che ha da sempre contrapposto il proprio pragmatismo politico al formalismo un po' decadente del rivale Hou Hsiao Hsien aveva provocato (prima di avviarsi ad un notevole successo anche commerciale) la sensazione di Cannes 2000 (Gran Premio della Regia): sostituendo alla dura intransigenza delle opere precedenti di Edward Yang (dalla sua più celebrata, A BRIGHTER SUMMER DAY, 1991, al rabbioso MAHJONG sulla gioventù contemporanea) l'umile serenità contemplativa di una indimenticabile saga familiare ed urbana.Dire che questa è la storia dei componenti di una famiglia nell'acquario indifferente di Taipei, da un (adorabile) bambino ad una nonna in coma, dalla cerimonia della nascita a quella del lutto, dalla realtà spesso volgare del lavoro a quella esaltante e pure mortificante dell'amore è assolutamente riduttivo. YI YI (che in cinese significa uno a uno, uno dopo l'altro) vuol dirci che la vita non è il risultato di un'entità astratta, di una durata più o meno prolungata nel tempo. Ma la somma, il frutto degli elementi che la compongono: la morte ed il desiderio, la paura d'invecchiare e la melanconia, l'egoismo e la colpevolezza, la curiosità del bambino, l'incontro con il metafisico dell'adulto, con il mistero della vecchiaia.
YI Yi è un film costruito sulla trasparenza. Trasparenza, certo, di tutte quelle immense superfici vetrate, quei riflessi infiniti attraverso i quali il regista osserva muoversi i suoi meravigliosi attori, filtrati come attraverso la lente (ma quanto umana!) dell'entomologo, spesso privati del dialogo, immersi nel commento musicale, nei rumori degli ambienti: quasi ad osservarli con un distacco che contraddice l'emozione del melodramma. Ma con una lucidità, una limpidità centuplicata.
Il piccolo Yang Yang fotografa le zanzare sul pianerottolo di casa; e le nuche dei compagni o dei parenti. Per dimostrare a suo padre la presenza di ciò che non si riesce a vedere, ed a conoscere. Al polo opposto della sua curiosità primordiale nei confronti del mondo materiale, la deliziosa Ting Ting esplora il polo opposto della vita: cercando avvicinare quello spazio altrettanto invisibile ma ancora più misterioso nel quale si sta rifugiando la nonna in coma. In una sequenza dallo straordinario impatto poetico, ed al tempo stesso elementare soluzione formale, la nonna lascerà in sogno una minuscola farfalla di carta che la nipote si ritroverà fra le dita: frammento misterioso di quel universo che Yang Yang prometterà di esplorare, per raccontarlo a tutta la famiglia, nel discorsetto funebre che reciterà alla chiusura del film.
A mille miglia dai film corali alla Robert Altman, YI YI è un viaggio, più che in una famiglia, una società o una città, in un tempo che si dilata progressivamente, magicamente davanti ai nostri occhi: e che la regia di Edward Yang, nella sua apparentemente semplice, in effetti formidabile, continua creatività prolunga all'interno dei personaggi, dei significati. E degli spettatori.