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CORVO ROSSO NON AVRAI IL MIO SCALPO
(JEREMIAH JOHNSON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 29 giugno 1973
 
di Sydney Pollack, con Robert Redford, Will Geer, Stefan Gierasch, Delle Bolton, Allyn Ann McLerie (Stati Uniti, 1972)
 
Sidney Pollack (NON SI UCCIDONO COSI ANCHE I CAVALLI ?) sembra essere, nel cinema americano, l'uomo che denucia certi miti sui quali proprio quel cinema ha fatto le sue fortune. Là il mito romantico degli anni trenta, qui il mito dell'americano pioniere, della sua fede nella natura, nel viaggio. Un tema che qui è storicamente datato al periodo pre-western, ma che i fenomeni hyppies rendono estremamente attuale. JEREMIAH JOHNSON è il capolavoro di Pollack, un film grave e quasi solenne che rappresenta uno degli incontri più intimi che il cinema americano (pertanto sicuramente non avaro in questo senso) abbia avuto con la natura.

E' la storia di una disillusione: la fuga dalla civiltà, il rifugio nella natura incontaminata, l'incontro con il selvaggio "buono" che il bianco ha reso cattivo, è un mito, è un sogno letterario che ha sempre ingannato l'uomo. (Cosi come molta parte dell'ultima produzione cinematografica del genere, improntata su un pacifismo e su un anti-razzismo di comodo, o su uno sfruttamento spettacolare della violenza, vedi Peckinpah).

JEREMIAH JOHNSON è stupendamente costruito su alcuni grandi momenti: l'incontro del cacciatore con la natura – rifugio: che il regista descrive con una purezza geometrica, una semplicità commovente basata sull'inserimento della figura nel grande paesaggio, nel contatto con gli elementi primordiali, l'acqua, il fuoco, le azioni primarie, come la nutrizione, l'alternarsi delle stagioni. Poi, Jeremiah, inconsapevolmente, si ritrova prigioniero di una legge che trascende la propria fede nella natura. Quando si ritrova con una donna, un bambino, quattro mura, quando cioè ricomincia a credere in un avvenire di tipo tradizionale, scende a compromessi con questa sua fede. Allora, per guidare un gruppo di soldati bianchi, per solidarietà a dei principi ambiguamente cristiani e morali, egli profana un cimitero indiano, scatenerà la loro vendetta.

Da quel momento il film si capovolge: la natura rigetta l'uomo, e così i rapporti con il "selvaggio". Così il ritmo della pellicola, che si fa convulsa, ricca di primi piani che contrastano con i vastissimi piani totali della prima parte. Ma pure, in questo sovvertimento, fino nelle sequenze più dinamiche, come l'assalto dei lupi, le lotte con gli indiani, il film conserva un tono serenamente contemplativo, lontano da qualsiasi compiacimento, da qualsiasi enfasi polemica. Fino alle ultime sequenze, di una quiete duramente conquistata, l'incontro con il vecchio cacciatore, sfuggente, ed il gesto finale di Jeremiah e del capo dei Corvi, consapevole constatazione di una situazione eterna, ineluttabile. Non è con la fuga che il protagonista ha trovato la libertà, ma piuttosto con una dolorosa presa di coscienza dei rapporti che regolano la sopravvivenza degli esseri umani.

Per l'estrema giustezza con la quale Pollack ha osservato questi rapporti, per l'arte con la quale egli li ha inseriti in uno scenario naturale di dimensione eterna, JEREMIAH JOHNSON è una meditazione tra le più dignitose e più pure che il cinema americano ci abbia offerto da sempre sulla libertà e l'illusione di possederla.


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