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GLI AMICI DI GEORGIA
(FOUR FRIENDS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 ottobre 1982
 
di Arthur Penn, con Craig Wasson, Jodi Thelen (Stati Uniti, 1981)
 
La farsa, l'epopea, il picaresco e, soprattutto, l'America. Arthur Penn dopo un lungo silenzio, e dopo la splendida parentesi di MISSOURI BREAKS nella quale aveva voluto rifugiarsi nella formula antica del western torna ad occuparsi della difficoltà del sogno americano. Non è certamente la prima volta, negli ultimi decenni, che il cinema americano si occupa del celebre "melting-pot". Come per il Kazan di AMERICA, AMERICA, il Forman di RAGTIME o il Cimino del discusso HEAVENS GATES è quel miracolo tipicamente americano di fondere gruppi etnici disparati in un'unica fede politica, economica e soprattutto morale, che viene a costituirsi come vero bersaglio della cinepresa.

Anche se la storia, a prima vista è un'altra: il ragazzino che giunge dalla Serbia, che incontra per la prima volta il padre, operaio in un'acciaieria di Chicago, che diventa adulto con tre amici e una ragazza, Georgia, della quale tutti e tre sono innamorati. Ma il clima di Penn ambisce a passare continuamente dall'aneddoto quotidiano, al significato più ampio, storico e universale. Le sue scene sono filmate in modo realistico, ma le sue sequenze sfociano immancabilmente nei significati simbolici: i ragazzi che fanno la serenata alla bella sono descritti mentre si danno delle pacche realistiche sulle spalle. Ma quando si allontanano su sfondo di grattacieli, sfiorando al clarinetto il motivo della Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvorak, ecco che diventano subito oggetto di intenzioni ben più ampie Il loro destino, cioè, riassume subito quello dell'epoca che essi attraversano, gli anni sessanta. E la loro esperienza, la loro apertura, disponibilità, fiducia nel futuro e nella società diventa quello di tutta una generazione; addirittura di tutte le generazioni che hanno cercato di formare l'America.

Da sempre, è uno dei temi di Penn: l'impossibilità, per l' americano giovane e puro, di accedere coi propri ideali ad un mondo adulto, che questi ideali ha distrutto. Ed ecco quindi la solitudine, lo scacco, la violenza.

Come tutti i protagonisti di Penn, anche Danilo, il giovane immigrato, e Georgia, l'idealista disponibile, incontrano gli aspetti esteriori, e noti di quella violenza: il razzismo, l'isterismo collettivo, la degenerazione dei valori. Penn, lo sappiamo da anni, è un regista capace di esprimersi con maestria: e almeno in una sequenza, quella del matrimonio di Danilo, riesce a tradurre con felicità insuperabile questi temi. Il giovane protagonista sta per raggiungere l'illusione: l'amore, il successo, il benessere nel matrimonio con una ricca ereditiera. Ma nel bel mezzo del garden party, tra gli abiti da cerimonia e le statue greche importate dall'Europa, il futuro suocero estrae una pistola, uccide la figlia, ferisce Danilo e si ammazza. Un po' come nel celebre finale di NASHVILLE è l'irruzione della violenza e della follia nella meccanica troppo oliata della corsa alla felicità made in USA. Un momento di grande cinema, preparato stilisticamente con abilità sopraffina.

Penn è altrettanto bravo nello smontare il mito dell'azione che quello del successo: e nasce così quell'altra ottima sequenza della rissa nel bar. Danilo si alza per battersi col fascista: ma dopo un paio di pugni trova un sistema ben più efficace per smontarne la tracotanza (ed il regista per farci meditare su tutta una mitologia della forza): gli vomita addosso. Da questa cronaca di sequenze riuscite nasce però il sospetto che il film sia più un seguito di scene, più o meno azzeccate, che di una vera e propria meditazione sul destino dell'essere americano. Ed è proprio uno dei limiti del film.

Penn, lo abbiamo detto, è uno che lega continuamente i significati della storia che sta raccontando a quelli di una storia ben più vasta e che è quella che veramente gli sta a cuore. Il suo cinema è quindi costantemente pensato, proprio per riuscire costantemente questo processo di sublimazione. Il rischio è quello dello schematismo, dell'eccesso di dimostrazione.

Tutte le scene di GLI AMICI DI GEORGIA vogliono essere significative; molte sono soltanto pensate.

Spesso, il film non riesce ad essere quello che avrebbe voluto essere. Non così realistico come avrebbe voluto, e non così poetico. Non così critico, e nemmeno onirico. Allo stesso modo la protagonista femminile non riesce così istintiva (e libera, e sexy, eccetera) come avrebbe dovuto essere, i ragazzi spensierati, la musica liberatoria, gli ambienti significanti, le situazioni commoventi.

È riuscito a metà: ci ha convinto di quello di cui già eravamo convinti, l'abilità e la maturità registica di Penn. Ma l'assieme di questo tentativo del regista (giustamente ambizioso, come sempre) non raggiunge la compiutezza logica e poetica di LITLE BIG MAN o di BONNIE AND CLYDE.


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