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CRIMINI INVISIBILI
(THE END OF VIOLENCE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 maggio 1997
 
di Wim Wenders, con Bill Pullman, Andie MacDowell, Gabriel Byrne (Germania - Stati Uniti, 1997)
 
A Wim Wenders l'aria di Cannes fa un gran bene: Palma d'Oro (PARIS TEXAS), Premio della Regia (LE ALI DEL DESIDERIO), Gran Premio della Giuria (SO NEAR, SO FAR), Premio della Critica (IM LAUF DER ZEIT...).

Cosi come quella dell'America: perché è laggiù che il guru (un po' disgrazia attualmente, per quei crudeli alti e bassi che dettano le mode cinefiliche) riesce a diluire il carattere talvolta grevemente messianico del suo cinema; quel modo d'infilare tra un'immagine e l'altra il predicozzo teutonico che, aggiunto ad un'innata difficoltà ad alleggerire con humour condiziona la parte meno ispirata della sua gloriosa filmografia. Quando, come qui, Wenders gira a Los Angeles (e pure in fretta) si permea di quei miti cinematografici dei quali si è nutrito, la sua visione si carica di rinvii della memoria che non sono semplicemente referenziali, ma poetici.

Raccontando questo suo polar semiserio (un produttore hollywoodiano di successo viene rapito da due balordi; ma, rovesciando la situazione, si fa giustizia dei due e scompare dalla circolazione recuperando valori ormai persi) Wenders denuncia la violenza imperante, la sua mediatizzazioni; e la degenerazione dei mezzi d'informazione che si fanno di sorveglianza.

Se Bill Pullman interpreta con humour il produttore, e Andie Mc Dowell la sua sofisticata signora che s'incarica di assumere brillantemente il ruolo dello scomparso congiunto, una figura chiave è infatti quella interpretata da Gabriel Byrne: un astronomo riciclato dal potere per costruire una rete di sorveglianza televisiva di tutta la città. Mostro a due teste: poiché capace - forse - di controllare la criminalità della metropoli. Ma arma micidiale a disposizione, come ai Mabuse del passato, a perversi Big Brothers del futuro: per assicurarsi il controllo, fino all'estremo più intimo di ogni individuo.

Tutto ciò Wenders lo avvolge in un canovaccio poliziesco non sempre limpido: e che puntualmente gli ha valso la perplessità di una critica sempre più desiderosa di trovarsi innanzi al fastfood con tanto di etichetta da trascrivere direttamente via computer. Dimenticandosi di quei thriller (vero John Huston, Howard Hawks, Sam Fuller?) dalla trama fumosa, ma dell'atmosfera dei quali ci si è poi ricordati per gridare al capolavoro. LA FINE DELLA VIOLENZA non è probabilmente tale: ma il piacere di filmare del regista, l'arte di abbracciare l'ambiente, gli oggetti (tecnologici: l'uso del video e dei computer; scenografici: gli sfondi alla Hopper negli studi cinematografici, ecc.), l'imbricarsi della vicenda, la densità delle atmosfere, dei colori e dei suoni conferisce al suo film una vitalità, una presenza, una godibilità che si può spiegare in una sola maniera.

Per la presenza di quel segreto troppo spesso assente nei prodotti puntualmente finalizzati, reclamizzati e omogeneizzati che ci fornisce il sempre più avido Moloch delle immagini: la golosità, l'energia e l'analisi di uno sguardo.


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