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FESTIVAL DI CANNES 2009 - A DUE GIORNI DAL TERMINE
  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 maggio 2009
 
(2009)
 

A due giorni dal termine, sapendo che al momento di essere letto i giochi saranno fatti, il malessere del cronista cosi come l'impossibilità di un pronostico (cui nessuno, tolto quella migliaia di naufraghi asserragliati nel bailamme della Croisette, presta un'attenzione spasmodica) che non arrischi lo sberleffo. Sola consolazione, la tradizionale mancanza di unanimità della critica; specie se internazionale, specie nella densità quasi insensata di sollecitazioni come a Cannes. Un riflesso in definitiva del tutto normale della soggettività che rende ogni giudizio operazione meno sterile e umano. Cosi, quando ancora manca all'appello gente come Haneke, Suleiman o Tsai Min Liang, basterà dire che a tanti sono piaciuti (oltre all'inglese Andrea Arnold della quale abbiamo riferito nell'ultimo numero) Jane Campion e Ken Loach, Jacques Audiard e Pedro Almodovar, Johnnie To, Tarantino e Alain Resnais; e piuttosto dispiaciuti Park Chan-wook, Lars von Trier, Marco Bellocchio o Brillante Mendoza. Mentre non è che a questi ultimi manchino convinti sostenitori c'è pure chi, confermando qualche sospetto della vigilia, lamenti gli effetti di autocitazione, se non proprio di compiacimento, da parte di alcuni dei nomi più eclatanti di un cartellone invero imponente, da Almodovar a Johnnie To, a Lars Von Trier, a Tarantino. Ma tutto questo non è tanto Cannes; c'est le cinema, cher ami…. BRIGHT STAR, di Jane Campion L'indimenticata neozelandese di LEZIONI DI PIANO ritorna al cinema, dopo un inizio di carriera formidabile; e pure alcune vicissitudini personali che ne avevano reso incerto il proseguimento, fino al modesto IN THE CUT di sei anni fa. Lo splendore di questo BRIGHT STAR, di questa visione preziosa e ormai rara di un tempo in cui c'era ancora tempo per i sentimenti rimarrà come uno dei momenti più felici di Cannes 2009. Di un festival dalla fretta dilagante, dalla globulina gorgogliante, dai lampi magari luminosi me sempre più ad effetto permessi dalle tecniche digitali o dall'obbligo del pugno allo stomaco. Jane Campion ritorna con una biografia, fremente come UN ANGELLO ALLA MIA PORTA o quel SWEETIE che ce l'aveva fatta conoscere: fremente, ma nel di ritegno. Emotivamente sconvolgente, ma nella misura. Le altezze a tratte vertiginose di questo film si nascondono infatti proprio nella misura, nel pudore, nell'intimismo di una vicenda che piu romantica di cosi non si potrebbe. La breve, intensissima storia di amore fra una giovane borghese dell'inizio Ottocento e il grande poeta John Keats, scomparso a 25 anni La maestria illustrativa della regista avrebbe potuto cadere nella ricerca del bello decorativo, nel sentimentalismo lezioso, nellla lamentazione lacrimosa. Al contrario, BRIGHT STAR è di una purezza (certo, dovutamente, dichiaratamente romantica) indicibile. "A thing of beauty is a joy for ever", recita uno dei versi piu' sublimi del grande poeta. E il film si adegua meravigliosamente a queste parole: rendendo cosi un ritratto perfetto della situazione e di chi la abita. Non fuggire dalla riproduzione del bello. Ma ricercarne la gioia all'interno di esso Le convenzioni, lo stato di indigenza di colui che è considerato da molti come il più grande dei poeti della sua epoca condizioneranno la sua passione per Fanny, la vicina benestante. Ma a governare il film non è tanto quel genere di tema più volte avvicinato: piuttosto la qualità superiore di uno sguardo, l'equilibrio donato da una luce, l'occupazione uno spazio, l'intima padronanza degli attori. Cosi,due labbra che infine si sfiorano appena, riescono ad imprimersi per sempre nella memoria. A tradurre non solo i valori di un'epoca; ma a ricordarci tutti quelli sprecati dalla nostra UN PROPHETE, di Jacques Audiard Forse il candidato più votato alla Palma. Anche se l'inferno carcerario non è proprio una novità. E la galera come scuola di malavita, nemmeno. E così, le lobby del potere: che prolungano all'interno delle mura, riproducendole e amplificandole, tutte le regole della sopraffazione, tutto il marcio che filtra, paradossalmente, dall'esterno. Che Jacques Audiard sia cineasta capace di rendere con grande sensibilità le atmosfere è cosa nota. Coadiuvato da uno splendido veterano, Niels Arestrup, che costruisce Luciani, un padrino della cosca corsa da fare invidia a quelli di Coppola, e dal bel viso dell'esordiente protagonista Tarar Rahim, il giovane arabo, analfabeta, che all'interno imparerà di tutto, a cominciare dall'alfabeto, il discorso è forte e più che condivisibile. Ma non proprio inedito; anche prolisso, a scapito della tensione drammatica. Cinema di qualità indubbia; ma i grandi prison movie americani di 50 anni fa dicevano le stesse, sempre utili cose.< THIRST, di Park Chan-wook Tra i più attesi, tra i più deludenti. LADY VENDETTA e OLDBOY, che Tarantino aveva adorato e premiato, avevano preparato il terreno all'universo del focoso, per usare un eufemismo, coreano. Padronanza di uno stile indubbiamente spettacolare anche se ai limiti del compiacimento, violenza che all'esordio di Cannes aveva preso di sorpresa la critica, raffinata e talora sofisticata provocazione. Con molte scuse, in primis sulla violenza: non fosse poiché il tema di quelle opere girava tutto attorno alla redenzione di un protagonista che aveva più di una ragione per vendicarsi.


Tutto si complica con questo THIRST (ecco il mio sangue...), che a raccontarlo arrischia di far fuggire più di un potenziale spettatore. Film di vampiri vagamente ispirato alla Thérèse Raquin di Zola, ma proprio a modo suo. Con un prete cattolico in Corea fattosi vampiro dopo essersi sottoposto ad un'esperienza medica in Africa: che, per alimentarsi in fase di convalescenza, succhierà sangue da fonti più o meno raccapriccianti. Senza evitare la medesima sorte alla donna amata; destinata, come ben sappiamo in casi del genere, a seguire l'identico destino Tutto ciò, ci mancherebbe, reso meno truce da una certa dose di humour; e da varie illuminazioni espressive che servono a relativizzare la crudeltà e la provocazione dell'assunto. Considerazione che non riescono a salvare il film: poiché la mancanza di misura (sembra un paradosso in un cinema tutto giocato sull'eccesso) lo conduce direttamente a quel compiacimento che mina il cinema del coreano. Incerto, in un a pellicola che avrebbe comunque essere stata ridotta di un terzo, tra l'horror, il fantastico e i vampiri, tutte faccende che non dimentichiamolo hanno reso anche grande il cinema fin dai tempi di Murnau, THIRST finisce per essere quello che non avrebbe dovuto, un grandguignol sempre più ripetitivo

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