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FESTIVAL DI CANNES 2009 - UNA RIFLESSIONE
  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 giugno 2009
 
(2009)
 

Non mi stanco di ripeterlo, le stellette rappresentano un giochino: ma un'occhiata a quelle della critica internazionale la dice assai lunga sull'aria che tira sui festival in generale. E dire che questo di Cannes che si è appena concluso, farcito com'era di nomi da antologia, è stato fra i più convincenti, tra i meno conflittuali degli ultimi anni. Ma com'è allora possibile, si chiederà il lettore comprensibilmente smarrito, che un film come quello di Tarantino si veda assegnare quattro stellette (capolavoro) dalla rivista più blasonata del dopoguerra, i Cahiers du Cinéma; mentre uno dei quotidiani universalmente più rispettati, Le Monde, gliene concede la miseria di una sola? O che la splendida, serissima Palma d'Oro di Michael Haneke, unanimemente osannata dalla critica, venga liquidata con la medesima sola stelletta, stavolta dagli stessi Cahiers? E le decisioni di una Giuria, allora? Fatti salvi i due premi maggiori a Haneke e Audiard, e pure quelli dell'interpretazione alla spericolata Gainsbourg ed allo straordinario e sconosciuto (da noi) attore tedesco Christoph Waltz del film di Tarantino, com'è possibile premiare per la miglior sceneggiatura un film scombinato proprio da questo punto di vista come SPRING FEVER del cinese Lou Ye? Oppure assegnare quello della Migliore Regia al provocatorio ma amatorialmente concepito KINATAY del filippino Mendoza? E non è finita: ricompensare con il Premio della Giuria un film vistosamente zoppicante e ripetitivo come THIRST, nettamente inferiore ai precedenti del pur talentuoso coreano Park Chan-wook. E tutto questo, quando per Alain Resnais, autore di una meraviglia d'inventiva e leggerezza, sia nell'idea che nell'esecuzione che ha incantato chiunque come LES HERBES FOLLES, non si trova di meglio per salvare la faccia che inventare un ipocrita premio “eccezionale”? Il fatto è che Cannes è certamente ineguagliabile. Innanzitutto per chi voglia concludere affari; ma pure per chi vuole visionare la quasi totalità dei “grandi” film in circolazione, perlomeno quelli terminati per le sue date. Ma rimane un festival, croce e delizia per chi nel cinema ci crede, come specchio dei tempi, espressione artistica, possibilità di svago o più semplicemente di far soldi. Delizia: perché sempre di più tutto il cinema che può definirsi tale passa ormai attraverso i festival; e perché nella decina di giorni di quel bailamme, l'interessato ha la possibilità di un'abboffata, di quantità ma anche di una qualità che gli sarà poi negata per tutto il resto dell'anno. E croce: perché un film nasce per essere visto sulla durata media di un paio d'ore, isolato nell'arco di una giornata, con tutto il tempo necessario perché la visione dei suoi fulminei ventiquattro fotogrammi al secondo possa sedimentare nella memoria dello spettatore. Perché il tempo sia in grado di svolgere la propria insopprimibile funzione: depositare quanto un individuo è destinato ad accogliere, filtrare quanto non appartiene alla propria identificazione. Da che festival è festival, sempre i verdetti sono stati condizionati dal presidente della Giuria. Intelligente, scontrosa ed estremista nelle proprie scelte di (grande) attrice, Isabelle Huppert non poteva che condurre, nel bene e nel male alle scelte di cui sopra. Per grande fortuna di un festival segnato da uno sfogo quasi generale nella violenza, spesso nella sua descrizione più sanguinolenta, la radicalità della Huppert ha condotto ad una Palma sovrana. Paradosso: al film più trattenuto e interiorizzato proprio di un autore come l'austriaco Michael Haneke, che sulla violenza, a tratti terrificante di FUNNY GAMES, del successivo CODICE SCONOSCIUTO, nel sadomasochismo della stessa Isabelle in LA PIANISTA aveva costruito la propria notorietà. Ma che già nel precedente, splendido CACHE' del 2005, aveva iniziato il cammino che conduce dallo spettacolo, magnificamente padroneggiato ma un po' gratuitamente a sensazione, alla riflessione artistica: l'itinerario che consiste nel mutare la violenza in inquietudine, il terrore in malessere esistenziale. Cosi la riflessione sulle origini del male, sui tarli che corrodono gli equilibri morali di una società e di un'epoca che già trasparivano dalla grande ma anche un po' gelida padronanza linguistica delle opere precedenti ha finito per permettere questo IL NASTRO BIANCO. L'opera più compiuta del proprio autore, quindi: al contrario di quanto è capitato a tutti i grandi registi del tabellone di Cannes 2009 che, ad eccezione della più scandalosa delle dimenticanze, la Jane Campion del fulgido (ma, guarda caso, immensamente pudico) BRIGHT STAR, hanno tutti compiuto un passo indietro rispetto a quanto fatto in passato. Da Almodovar a Tarantino, da Johnnie To a Marco Bellocchio, da Park Chan-wook a Lou Ye, dal pur gradevolissimo Ken Loach al ripetitivo Elia Suleiman. Nella duttilità preziosa di un bianco e nero che trasmette il messaggio con la nobiltà dei Dreyer e dei Bergman, la ricreazione della vita in un villaggio della Germania del 1910, il quotidiano apparentemente normale ma progressivamente straniante dei bambini, dei contadini, di chi detiene il potere sopra di loro, l'educazione, il pastore, il barone, conduce l'Haneke di DAS WEISSE BAND, in equilibrio implacabile tra poesia e denuncia, non solo a disquisire una volta ancora sulla Colpa. Non tanto a scavare nelle origini dell'incombente Grande Guerra e nell'avvento successivo del nazismo; ma, sulla vibrazione di una straordinaria tensione incombente, ad esprimere la degenerazione dei valori che inquieta la nostra epoca. Quando gli ideali inculcati a forza di sevizie ai bambini, alle donne, ai più manipolabili da parte di un potere assoluto e puritano conducono, per dirla con le parole del regista, ad ogni forma di terrorismo e di fanatismo, politico e religioso. LES HERBES FOLLES, di Alain Resnais Meraviglie del cinema quando si merita l'appellativo di arte; e quando lo fa con l'aria di non prendersi sul serio. A 86 anni Alain Resnais sforna un film di deliziosa leggerezza, d' incredibile fantasia e ancora più incontenibile libertà. Tutta sua, nel caso ne dubitassimo; tanto che, per la prima volta nella sua gloriosa carriera, ne inventa anche la sceneggiatura, ne scrive gli irresistibili dialoghi. Il tutto in una storia apparentemente stramba su un'infatuazione tardiva, nel segno della più fresca inventiva, delle situazioni più paradossalmente poetiche, nel tono più maliziosamente scanzonato e provocatorio. Se gli attori sono meravigliosi di simpatia oltre che bravura, il ritmo nasce da un montaggio dalla cadenza incantata. Mentre le immagini, il tono cromatico rappresentano una festa d'invenzione e di aderenza psicologica ai personaggi vicina a quelle di un creatore moderno come Wong Kar-wai. Ogni dettaglio di una situazione viene indagato con una sete di conoscenza che non conosce frontiere; cosi il grande Resnais colpisce nell'aria dei tempi. Con la storia svitata fra una dentista che sfoga la propria solitudine pilotando fra le nuvole ((Sabine Azema, la musa di sempre), un pensionato che non si rassegna alla propria condizione (irresistibile André Dussolier), un poliziotto lunare che cerca di mettere ordine tra i due (per la prima volta con il regista, il bravissimo Mathieu Amalric) Alain Resnais sembra sfidare l'aria rassegnata e smarrita che attraversiamo. L'autore di SMOKING NO SMOKING la fa nascere, come sempre, dal Caso: appropriandosela poeticamente rivendica una volta ancora quanto nulla sia impossibile agli uomini di buona, e fantasiosa ANTICHRIST, di Lars Von Trier Cinque minuti iniziali sublimi, una prima parte dal fascino impegnativo, l'ultimo terzo che sfocia nel Grand Guignol satanico. Incomprensibilmente sanguinaria, probabilmente misogina nella tradizione complessata del regista di BREAKING THE WAVES, l'evoluzione spiegabile solo nella (inutile) provocazione di un film che si stava dimostrando come uno dei più sofferti, e razionalmente analitici del regista danese. Una spaccatura a due terzi che nella sua radicalità nasconde forse il desiderio, più che di innovare, di scandalizzare. Un modo di dire allo spettatore, vedi che genere di film sono capace di fare? Adesso sono io a divertirmi: e cosi, dopo alcune icone d'epoca satanica, ecco la svolta, non più la madre sofferente per la perdita del figliolo, assistita dal marito terapeuta anche se egualmente afflitto dal medesimo sentimento di colpa. Una madre (temeraria Charlotte Gainsbourg che sovrasta il disastro, meritandosi il Premio all'Interpretazione) che, nel migliore dei casi per logica, potrebbe impazzire. Ma che nel peggiore (quando da Bergman o Tarkovski si svicola a quel punto sui lidi più sdrucciolevoli dei Polanski e Zulawski) si trasforma in strega. Non chiedetemi perché: cosi un film che viveva di sofferta contemplazione, di dialoghi intelligenti, di un incontro commovente con l'ordine naturale si trasforma in un macello trash più che gore, in una disordinata mattanza dalle più esibite frattaglie. Exit allora ogni lettura umanistica di un aneddoto accorato: per lasciare il posto ai disturbi di un cineasta dal talento troppo spesso sprecato.

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