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FESTIVAL DI CANNES 2009: IMPERIALE E INFLAZIONATA
  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 maggio 2009
 
(2009)
 

Gli alberghi saranno poi come il solito completi; sarà poi vero che per la prima volta nella storia dell'avvenimento cinematografico più rincorso al mondo, gli altezzosi palaces sulla Croisette hanno rinunciato alla tradizionale imposizione dell'affitto sull'intero periodo? Crisi o meno, un paio di nottate basteranno comunque al soggiorno delle troupes dei due film ai quali si è riservato l'onore, che è poi come dire l'onere, di avviare la tumultuosa kermesse. Non solo perché il programma, inflazionato al solito malgrado le promesse abituali incalza minaccioso. Ma poiché le due carte sicure (animazione e sesso, meglio se gay) sulle quali si è scommesso per andare fin dall'inizio sul liscio, dovranno lasciare il posto al filone al quale si affida Cannes dell'anno di poca grazia economica 2009. I grandi nomi: ma preferibilmente sicuri, in quanto fedeli amici del passato e già regolarmente ricompensati, preferibilmente non di primo pelo, in quanto garanti di risultati poco destabilizzanti. Soprattutto non bellicosamente alle prime armi: perché in tempi come questi, mentre gli iscritti a quella che da sempre rappresenta l'indiscussa arma totale di Cannes, il Mercato, sono ridotti di un terzo, meglio lasciare perdere intenti sovversivi e proposte marginali. Che poi scompariranno dalla circolazione non appena spenti i riflettori sui tappeti rossi. Cosi, ecco accomunati nella prima giornata due opere situate ad antipodi non solo geografici come UP della Pixar-Disney e NOTTI DI EBBREZZA PRIMAVERILE del cinese Lou Ye. L'accoppiata animazione per grandi e piccini, che ha rimpinzato i botteghini perlomeno fino a quando tutti ci si buttassero sopra; e l'ammucchiata, perlomeno a tre, da sempre garante dell'approvazione di un certo cerchio di aficionados.C'è forse da dire più della seconda che del sicuramente fortunato (uscirà in ottobre) UP firmato da Peter Docter nel solco disneyano anche se ormai definitivamente computerizzato dalla ormai mitica impresa di John Lasseter, onorato in settembre a Venezia con il Premio alla carriera. Ed è all'innovazione tecnologica (che secondo taluni dovrebbe assicurare il futuro incerto del cinema nelle sale) che si affida la vicenda del nonnetto che si fa trascinare in cielo con la sua casa aggrappato ai palloncini. Poetico, divertente ed esemplarmente non esagitato, proprio alla Walt Disney: con La Pixar che per la prima volta rimette un “umano” (qualcuno dice che assomiglia a Spencer Tracy) fra i suoi ninnoli animati, ma molto reclamizzando l'effetto della 3D numerizzata. Eccoci quindi ritornati all'epoca degli occhiali da inforcare al buio che accomuna gli spettatori ad una strana banda d'invasori extraterrestri. Non più di plastica stazzonata come quelli di allora, ma con risultati che non giureremmo sufficienti a sostituire quelli della magari piattamente bidimensionale, ma talvolta inventiva creatività tradizionale. Com'è facile intuire dalla traduzione forse provvisoria del titolo, non è precisamente alla stessa platea che s'indirizza NOTTI DI EBBREZZA PRIMAVERILE, il film del cinese Lou Ye non nuovo a Cannes. Dove, dopo aver girato di nascosto per le strade di Shangai un SUZHOU RIVER che avrebbe vinto a Rotterdam e provocato la sensazione a Parigi già nel 1999, aveva infatti presentato successivamente PURPLE BUTTERFLY e SUMMER PALACE. Regolarmente proibiti in patria, non fosse perché incollato alla storia dei sanguinosi conflitti in Manciuria con i giapponesi, il primo; e a quella più recente dei fatti di Tiennammen, il secondo. Già allora la passione amorosa: ma di pari passo con l'apprendimento della coscienza politica, in un cinema ancora disordinato, ma animato da una generosità manierista, da un'irruenza giovanile che aveva sedotto il vostro cronista.


Qui, è rimasta la passione. Nasce da un triangolo gay: il che non può non comportare qualche inconveniente, non fosse che per il fatto che proprio il meno armato alle emozioni forti (suscitate dalle lunghe ciglia di un insegnante con l'hobby del karaoke nel locale per transessuali) si ritrova regolarmente maritato. Triangolo, poi quadrilatero, quando ai tre si aggiunge, con tanto di fidanzata, il fotografo incaricato dalla moglie tradita di cogliere in fallo il consorte. Contemplativo e stirato: non fosse per la difficoltà, perlomeno per lo spettatore occidentale, di raccapezzarsi fra le fisionomie. Insomma chi, come scrive la sempre arguta Natalia Aspesi, sodomizza chi.


Compiacimento, quando non si ha a disposizione uno script solido? Che a un cineasta cinese sia stato concesso di mostrare amplessi tanto espliciti rimane l'unico mistero del film. Se non fosse però noto che a LouYe, appena uscito da quattro anni d'interdizione di filmare in Cina, i mezzi sono stati messi a disposizione dalla sempre ecumenica produzione francese. Forse anche per questo, dietro il talento impressionistico di Lou Ye, dietro quel suo modo di accostarsi a fior di pelle ai personaggi, sullo sfondo di un ambiente cui riesce talora di esprimere la propria malinconia meglio che ai personaggi che lo popolano (colti a Nankino, con una evidentemente leggera camera digitale) sembra di rivedere certi film della Nouvelle Vague, primo fra tutti, l'anche se etero, ma consistente JULES ET JIM. Fine del primo tempo, allora. E uno a zero per l'Occidente, in quella gara senza americani che lo oppone agli orientali. Merito in gran parte dell'apparentemente smorzato, in effetti splendido FISH TANK della inglese Andrea Arnold. Ingiustamente snobbata da una parte delle critica tre anni fa, ma giustamente riconosciuta dalla giuria per il suo primo RED ROAD. Non che i due film abbiano tutto in comune: se non lo sfruttamento dello sfondo, che già era notevole in quel thriller sulla videosorveglianza a dipendenza voyeuristica. Ma qui l'ambiente gioca una tale importanza da proiettare fin dalle prime immagini il film in quegli universi dell'osservazione sociale che si fa poetica che cosi bene riescono ai cineasti inglesi. A 48 anni, insomma, questa signora s'impone alla grande nella tradizione dei KES di Ken Loach, dei capolavori duri ma terribilmente umani di Mike Leigh, dell'osservazione che sa anche essere disincantata nella disperazione alla Stephen Frears. Del grande cinema sul passaggio dall'adolescenza all'età adulta. La forza di FISH TANK si costruisce sulla sua normalità, sulla sua sorta, ahimè, di normalità. Proprio sulla prevedibilità della storia di Mia. Viva, fresca, ribelle, insopportabilmente sfrontata, in quella solita periferia industriale disastrata, una madre assente, abbandonata e flippata, il suo amante aitante, un attimo emancipato e sorprendentemente paterno: con il quale come volete vada a finire? Ma FISH TANK significa acquario. Ed è in quel contenitore che preclude ogni navigazione, fra quelle pareti dalle quali traspare continuamente tutta la demolizione, materiale e morale, operata dal nostro tempo che Mia (formidabile Katie Jarvis) dovrà pur trovare uno sfogo alla propria fondamentale voglia di vivere. Alla propria indistruttibile forma di speranza; ad una positività che finirà per trasparire non solo nella sua passione per l'hip – hop. Esplorazione di impressionante ma tranquillo verismo di una giungla posta fra il cemento degli svincoli autostradali, fra qualche stagno dove un pesce può ancora essere afferrato con le mani poiché abbandonato da anni, il film sembra quasi adagiarsi nella sua accorata contemplazione. Ma nel soprassalto finale, in una conclusione dalla normalità tanto più rivelatrice rispetto a una eventuale soluzione drammatica, c'è tutta l'intelligenza e la sensibilità del piccolo, grande cinema che sa essere vicino ai problemi dei tempi e della gente.

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