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FESTIVAL DI LOCARNO 2014 (2)
  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 agosto 2014
 
Lav Diaz, Borleteau, Jung-bum Park, Lu Zhang, Melgar, Besson Zbanic, Zilbermann, Alex Ross Perry, Lav Diaz, Pedro Costa (2014)
 
FESTIVAL DI LOCARNO 2014: DUE DIVERSE ANIME DA INDAGARE

C'E' FOLLA E FOLLA

La Giuria di Locarno ha salvato la faccia a una edizione del Festival che per vari motivi, alcuni arcinoti, una grande figura negli ambienti cinematografici internazionali non la stava facendo. Ha sottolineato saggiamente quanto risultava di notevole: 5 film del Concorso internazionale, 4 della sezione Cineasti del presente, due dell'Opera Prima. Con qualche perplessità d'obbligo: una menzione dedicata (magari al posto di quella andata al filmetto francese di Lucie Borleteau FIDELIO, L'ODISSEA D'ALICE) ai due notevoli film coreani ALIVE di Jung-bum Park e GYEONGIU Lu Zhang; così come al sottovalutato L'ABRI, che concludeva il preziosissimo trittico sull'immigrazione del nostro Fernand Melgar.

Detto così, il bilancio cinematografico (tralasciando quello al solito trionfalistico sulle presenze e le ovviamente irrinunciabili ricadute economiche) del festival 2014 parrebbe più che soddisfacente. Se non fosse che questa ventina di opere (considerando anche le altre punte di eccellenza) era disseminata in un numero abnorme di sezioni: soltanto con un GPS di nuova rabdomantica concezione sarebbe stato forse possibile intuire in anticipo all'interno di quale sezione andassero reperite. Piazza Grande, Concorso Internazionale, Cineasti del Presente, Fuori concorso, Pardi di domani, Signs of Life, Film dei Premiati (compresi quelli dei quotidiani pataccati d'Onore, almeno 21, dimenticandone qualcuno dell'ultima ora), Histoires du cinéma (?), Film delle Giurie (14), Open Doors, Semaine de la Critique, Panorama Suisse, oltre alla giustificata cinquantina della, tradizionale Retrospettiva, costituiscono un dedalo inestricabile. Non un percorso chiaro e leggibile in anticipo, perlomeno nei limiti del possibile. Cosa che un festival dovrebbe farsi un dovere di offrire: in tre, quattro ben motivate selezioni, raggruppando le proprie scelte, assumendo il rischio di eventuali sviste, come accade d'altronde ovunque, da Cannes, a Venezia o Berlino. La dispersione crea altrimenti anche ingiusti sospetti: primo fra tutti, che sia creata ad arte per nascondere l'assenza di autentiche presenze artistiche.

Ma queste sono pecche ovviabili. Il vero problema di Locarno (e tutta la stampa d'oltre Gottardo inizia a metterlo a fuoco) è la crescente spaccatura creatasi fra la Piazza e le proiezioni nelle sale. Ossia quella che già abbiamo definito schizofrenia, una incrinatura che si sta facendo voragine. E che arrischia di creare ulteriori danni al già precario potere di contrattazione della manifestazione, alla sua identità, in particolare internazionale, alla sua vocazione storica, alla sua comprensione, per quel grande pubblico che a giusta ragione fa di Locarno il più grande dei festival popolari al mondo.

La programmazione nelle sale si sforza da sempre di ottenere delle pellicole nelle quali l'interesse e l'emozione dei contenuti sia avvalorata da una scrittura adeguata, se possibile innovativa, meglio ancora se meravigliosa. Quella della Piazza, si è ormai rassegnata alla famigerata filosofia dei film buoni per tutti. Temi e storie, ci mancherebbe, pure encomiabili; ma mortificati da linguaggi qualsiasi. Se la scelta del blockbuster d'apertura, LUCY, profittava utilmente dell'abilità egocentrica di Luc Besson, titoli come il culinario THE HUNDRED-FOOT JOURNEY , il pseudo provocatorio LOVE ISLAND di Jasmila Zbanic, il ricattatorio e maldestro A LA VIE di Jean-Jacques Zilbermann (ma si potrebbe continuare) erano addirittura diseducativi nel contesto di una mostra di cinema che si considera al tempo storica e attuale. E' la conseguenza di avere, nel corso degli anni, compromesso le esigenze dei famosi ottomila, castrato il loro spirito critico, ammutolito quelle reazioni che costituivano l'unicità, il vero interesse di una platea popolare e disparata. Da non considerare un gregge di pecoroni.

In Piazza non ci vado più, sembra diventare la parola d'ordine per chi continua a frequentare Locarno per il cinema, e non solo per la sua cornice. Ma adeguarsi a questo diktat sarebbe suicidario. La Piazza è l'anima di Locarno, l'immagine inscindibile sulla quale il suo festival ha affermato nel corso degli anni la propria reputazione come spazio di ricerca e di conoscenza. Uno spazio che va usato come arma, nei confronti della concorrenza, non come una palla al piede: come argomento da sostenere per ottenere opere sempre migliori. Vivere di quella schizofrenia è una mina vagante che minaccia la manifestazione nel suo assieme: rassegnarsi, peggio, compiacersi delle due cosiddette anime del festival sarebbe molto pericoloso. Sono due anime interdipendenti: ma la sola sulla quale è possibile intervenire e innovare, finalmente con un minimo di coraggio, è la Piazza.

Che lo si voglia o meno, infatti, a rimanere saranno i film. Rimarrà allora il Pardo d'Oro, il filippino FROM WHAT IS BEFORE di Lav Diaz, che Locarno ha avuto il merito e l'audacia di presentare: non perché duri 338 minuti, come hanno ironizzato alcuni che probabilmente non l'hanno nemmeno visto, ma poiché è un capolavoro dall'ipnotico incanto. Un'elegia meravigliosa nella quale, per chi ne teme l'impegno fisico, si può anche immergersi a tratti, così come, quasi casualmente, ci si può introdurre in un verso di Dante, una pagina di Proust, un frammento di Wagner, un dettaglio di Rembrandt. Certo, il fascino insolito di questa vicenda che si avvia in un villaggio perduto nella straordinaria dimensione naturale delle Filippine del 1972, mentre il presidente Marcos impone una legge marziale rimasta di tragica memoria, finisce per premiare chi osa abbandonarsi alla cadenza magica del film. Chi si lascia affondare nell'ambiente abbracciato da tutto il tempo necessario, nello splendore estatico dei piani-sequenza di Lav Diaz, nel verde ossessionante della natura, la pioggia ricorrente, il vento instancabile nell'eco di un mare che minaccia poco distante. Con i personaggi che si avvicinano dall'orizzonte estremo delle colline, che progressivamente si delineano alla nostra attenzione; mentre un'inquietudine indefinibile sembra affiorare da quell'Eden primitivo, gli avvenimenti stranianti iniziano ad intervenire, il degrado dell'ordine naturale annuncia quello della serenità degli individui. E l'arrivo, come dal nulla, dei primi uomini armati.

Ottimo Premio Speciale della Giuria, LISTEN UP PHILIP dell'americano Alex Ross Perry conferma l'impressione di trovarci al cospetto di una voce del cinema americano che conterà nei prossimi anni: uno di quei cinici lucidi e assurdi che ricordano Philip Roth e Woody Allen, e che grazie anche a due attori straordinari come Jonathan Pryce e Jason Schwartzman spedisce questa riflessione sulla professione dell'artista nella dimensione godibilissima degli ineffabili misantropi.   

Mentre Pedro Costa vede il suo CAVALO DINHEIRO premiato per la Migliore Regia. E' una prova ennesima, da parte del regista portoghese, di un suo lavoro personalissimo, continuo e evolutivo sull'ambiente della colonia nella periferia di Lisbona degli immigrati del Capo-Verde. Una riflessione tra le più riuscite dell'autore, che nasce dalla qualità di uno sguardo accorato, certo non condiscendente, ma al tempo stesso politico e esistenziale che una giuria di cinema non poteva non segnalare.

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