Orso d'Oro alla Berlinale 2010 e ultima scoperta di un universo cinematografico che sempre più sembra alimentarsi di festival e sale d'autore in via di scomparsa, MIELE andrebbe meglio compreso se accostato ai due film che completano la TRILOGIA DI YUSUF firmata dal cineasta turco Semih Kaplanoglu. In un originale processo a ritroso, un proustiano ricupero del tempo perduto, il primo episodio, UOVO (EGG), descrive infatti l'esistenza del protagonista ormai quarantenne e poeta; il secondo, LATTE (MILK), ne indaga i delicati rapporti da diciottenne con la madre. Mentre questo MIELE ritorna alle origini dell'itinerario, penetrando nel profondo dell'iniziazione di un bambino che, immerso nelle foreste dell'Anatolia, viene condotto ai misteri della natura dal padre apicoltore grazie ad un misterioso, quasi magico rapporto sussurrato.
Un tentativo di introspezione rara; che non a caso l'autore definisce di realismo spirituale. Grazie alla meravigliosa reattività del giovane protagonista accentuata dal suo progressivo mutismo, agli echi più misteriosi dei suoni circostanti, agli squarci che frugano nelle penombre, i primissimi primi piani prolungati, le cadenze contemplative dai tempi che vanno ben oltre quelli comunemente usati dai cineasti che amano lasciare gli attori vivere fino alle estreme conseguenze i propri sentimenti, tutto nello sguardo dell'autore concorre alla ricerca di una intimità armonica ed eterna con l'ordine cosmico. Con la magia dai significati ancestrali che ricorda a tratti quella del grande Terence Malick.
Capace di passare dall'impressionante sequenza anticipatoria iniziale (il padre appeso alla sommità dell'albero, alla ricerca degli alveari che sempre si fanno più rari; il ramo che accenna a spezzarsi
), alla vibrante sensibilità di quelle tese a evidenziare il disagio del ragazzo nei delicati affetti domestici o nello sforzo del superamento scolastico, il regista turco insegue validamente (esasperatamente?) una poesia al tempo stesso naturale ed enigmatica. Anche se il rischio, con la poesia come con quel sogno che il padre raccomanda al bimbo di mai raccontare a nessuno è, che a troppo rincorrerlo, arrischia di sfilarsi come sabbia fra le dita.