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MATLOSA
(MATLOSA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 novembre 1981
 
di Villi Hermann, con Omero Antonutti, Francesca de Sapio, Flavio Bucci (Svizzera, 1981)
 
"Pazientemente, una mano ruvida, un coltellino, ritagliano delle matite. Serviti da una fotografia contrastata, precisa, asciutta gli oggetti si stagliano in modo crudo sullo sfondo. Qualche istante più tardi, un villaggio tipicamente prealpino ci viene incontro, divorato dal verde di una natura recepita sensualmente. Nelle acque di un lago artificiale si scorgono i resti diroccati di una cascina, di quel che fu un villaggio di mezza montagna. Svestiti gli abiti cittadini, un uomo avanza in un bosco a cercare lumache, fra la nebbia grigia e blu che, poco a poco, lascia il posto al verde di sempre.

Le prime sequenze di Matlosa ci dicono già tutto del cinema di Villi Hermann. La volontà di indagare nel presente con uno sguardo che è quello del documentarista, senza abbellimenti e filtri vari, per giungere ad un giudizio più politico che morale delle cose. Un incontro più emotivo, quasi romantico, con la natura, con il passato: il tutto condotto sul filo di un desiderio, quello di comprendere cosa si è rotto, nella natura come negli uomini che vivono dentro quella natura, nello spazio di tempo che separa i due momenti.

Una madre ticinese, un padre e un nome svizzero tedeschi, una parlata e un modo di essere che ricordano continuamente questa fusione, Villi Hermann e sicuramente anche lui un po' "Matlosa", come il personaggio, tratto da un racconto che Giovanni Orelli ha pubblicato a Locarno nel 1975. Un personaggio che altrove, probabilmente, si sarebbe chiamato zingaro: ma che la realtà svizzera ha ancora una volta addolcito, derivandolo da "Heimatlos". Un mercante ambulante, un vagabondo, un senza patria, un emarginato insomma.

Matlosa, ed è il primo elemento che ci sembra legittimarlo, è un film che ci tocca per la sua sincerità e, talora, per la sua sofferenza. Così come dietro al protagonista non e difficile scoprire certe emozioni dell'autore, egualmente nel quadro e nel tono del film evolvono dei sentimenti, si provocano delle reazioni che appartengono a noi tutti. Quelle, ma se ne potrebbero citare infinite, di vivere in una condizione che difficilmente affronta i problemi, materiali o interiori, pur di non alterare un modo di vita consolatorio e rassicurante. O quelle imposte da uno sviluppo innaturale, che ha trasformato in una o due generazione dei contadini in abitanti di grossi villaggi, gonfiati dall'ambizione di chiamarsi città.

Una buona parte di tutto ciò, ed è il secondo degli elementi che nobilitano il film, Hermann è riuscito a tradurlo in una visione coerente e significativa. E direi innanzitutto dell'unità stilistica degli esterni che, ben oltre lo splendore di una natura colta con grande intuito, sa ricollegarsi ad una tradizione "svizzera", e quindi con un significato tutto suo, di una pittura ottocentesca alla Hodler, nella quale il realismo delle apparenze cede ben presto il passo al simbolismo e all'idealismo.

Il cinema di Hermann è, in buona parte, preciso; in questo senso il rifarsi alla tradizione pittorica nazionale (oltre ad Hodler si può pensare alle incisioni e litografie d'epoca, fino all'opera di un Felix Vallotton) lo inserisce perfettamente nel contesto di un certo cinema svizzero. La precisione del regista risalta poi assai bene nelle sequenze di derivazione più spiccatamente documentarista. Anche se il Hermann dichiara di aver voluto dimenticare (al contrario di quanto avviene in San Gottardo) il suo passato di specialista del genere, mi sembra che questi risalga in superficie quasi inconsciamente: e certe sequenze, nelle quali l'uomo e l'ambiente sono colti con innata freschezza, nascono proprio grazie a quel passato del cineasta. Così quella del camion della Migros che mette in fila gli abitanti del villaggio, come una volta la cassetta di stracci del Matlosa: uno sguardo sul presente che si potrebbe definire realistico, ed uno sul passato che sembra invece appartenere ad una specie di realismo poetico.

Il film vive di queste contrapposizioni, fra presente e passato, fra simbolo e realtà. Alcune avvengono con grande felicità: così il primo flash-back del ragazzino che corre fra i militari dell'ultima guerra, richiamato alla mente del protagonista dalla vista del filo spinato che corre ancora nei boschi vicino al villaggio. O quella tra i figli di oggi, alla lezione di judo, e il catechismo di allora. Nascono allora quelle visioni idealizzate del passato che arricchiscono il film di pagine sapienti: si veda ancora la partenza del ragazzino dalla stazioncina di Palagnedra, il viaggio in treno, i marroni e la mela che i viagglatori gli porgono. Altrove, sono proprio questi confronti, determinanti per comporre il discorso Ideologico del film, a scandirne i limiti. Quando l'autore avvicina con il montaggio la cena in pizzeria della moglie e dei figli al protagonista che, solitario, in cucina si beve il caffè con la grappa, la sottolineatura diventa troppo importante. La stessa cosa si dica di certe inquadrature di troppo scoperta allusione: il movimento di macchina che scopre, dietro ai muri vecchi del paese, l'autostrada che corre sul fondovalle. O anche quelle, formalmente ineccepibili, del matlosa accompagnato oltre il filo spinato, in un prologo e in una conclusione che sembrano un po' incollate al tutto.

Sono osservazioni che vanno oltre l'osservazione stilistica: perché è dalla coerenza del discorso formale che nasce quella ideologica. Se dal continuo riandare del protagonista a luoghi e costumi di altri tempi sembrano nascere, talora, dei sentimenti passatisti, questa non era certamente l'intenzione dell'autore. Ma piuttosto il risultato di alcune incertezze stilistiche che, anche se in misura assai minore che nel precedente San Gottardo, segnano ancora questo Matlosa. Non si tratta qui di fare il solito discorso sulla recitazione degli attori, sul dialetto, sugli attori italiani. Sappiamo quali contingenze, anche economiche, costringano a certe scelte. Ma alla base del cinema di Hermann rimane l'equivoco ed il grosso problema di far coincidere i due momenti dell'ispirazione del cineasta: quello del realismo in presa diretta, di estrazione documentaristica, e quello di una teatralizzazione, di una distanziazione brechtiana per le scene che si vogliono esemplari, ideali o eterne. È difficile, per non dire impossibile, far coesistere le due cose: e così il "balletto" contemporaneo della mancata promozione rappresenta una rottura di tono rispetto alle scene di famiglia, col ragazzino che dice "sanissimo" osservando la TV.

Sono osservazioni che intaccano sempre più marginalmente l'opera di Hermann che, per certi aspetti tematici e stilistici sembra inserirsi in modo sempre più armonioso e conseguente nel cinema nazionale. Che questa sia l'opera più impegnativa e matura del cinema ticinese mi sembra fuori di dubbio (e qui andrebbero ricordate le varie collaborazioni locali al film, prima fra tutte quella di Angelo Gregorio alla sceneggiatura). Chi ancora arriccia il naso al cinema di Hermann osservi come termina i suoi film: in SAN GOTTARDO, inquadrando la statua di Escher sulla Banhofplatz di Zurigo, passava dall'800 al 900 con una splendida ellissi e sottolineando la continuità della condizione umana. Qui, con un imponente movimento di gru, si solleva dalla piccola folla della Piazza Dante, che per un istante ci ha dato l'illusione di una grande città, ad una panoramica significativa dei tetti di Lugano e di un piccolo mondo cresciuto troppo in fretta."


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